domenica 29 dicembre 2013

Le sperdute

Amo le chiese piccole, anche quelle
dei confini più soli e più remoti,
ove tremano voti d'angelelle
a sera, quando i banchi sono vuoti.

Con qual mistero trepidi e devoti
noi ci recammo a lume delle stelle
per scioglier con l'amante dolci voti!
Eran l'anime unite: due sorelle

che vanno sole, al buio, per la strada
ove i fanali sembrano morire
languidi e fiochi sotto la rugiada.

E la strada non par ch'abbia a finire
prima che il nostro cuor si persuada
ch'ella ci adora, ma non sa che dire.

(Giovanni Croce)


Giovanni Croce (1889-1911)




"Le sperdute" è il titolo del sonetto IX della sezione "Le chiese" del volume poetico di Giovanni Croce: "L'anima di Torino", Quintieri, Milano 1911. Il libro del poeta torinese, uscì lo stesso anno della sua scomparsa. È diviso in 6 sezioni, ciascuna composta da una dozzina di sonetti che hanno come tema dominante la città di Torino e i suoi abitanti. Ogni sezione, a mo' di presentazione si avvale dei disegni di Giovanni Corvetto.  

mercoledì 25 dicembre 2013

Neve in Palestina

Poi sgranammo collane di paesi
pittoreschi e fraterni, con un lusso
di vedute mai visto, e in Palestina
ci guidaron gli uccelli. 
                         Nella notte
nelle plaghe orientali
quasi il fiore del glicine; e il deserto
di roccia fu da lilla a bianco. Ogni cammello
ebbe cibo di neve: una celeste
pozzanghera di manna; e svolazzanti
nuvolette di spuma, a vele piccole,
navigavano l'aria. I tamburelli
degli angeli facevano una festa
strepitosa. Caduto era l'inverno,
gelo d'uno in altr'uomo. 
                         Non l'avara
penuria che fa gli uomini maligni
vidi; e, oh, quante speranze!
                              In mezzo al ceto
de' semplici pastori si confonda
il cittadino pallido, e gli caschi
dal cor la spina dell'invidia, e veda
nascersi sopra gli òmeri leggera
fantàsima di nebbia e porti l'agna
- oggi, a emblema di sé mite - al Signore
Bambino. Pargoleggia tra le agnelle.


NOTA
Questa poesia è di Renzo Laurano ed è presente nell'antologia Natale dei Poeti, Ancora, Milano 2001 (pp. 90-91). Il testo ha, come sottotitolo, la seguente dicitura: "da un idillio «Il Natale»". In effetti, quel "poi" che inizia il primo verso, fa comprendere che si tratta di un prosieguo ad un discorso iniziato già precedentemente. La poesia parla di un viaggio effettuato, forse, da alcuni pellegrini (tra cui il poeta), che ha come meta il luogo in cui nacque Gesù. L'arrivo in Palestina coincide con una sorta di miracolo: una nevicata eccezionale; i fiocchi di neve, cadendo, si trasformano in qualcosa d'incredibile: fiori del glicine, manna che diviene cibo per i cammelli, nuvolette di spuma... Nello stesso tempo si verifica un mutamento climatico e nello stesso tempo comportamentale: con la scomparsa del gelo, si assiste all'apparizione di nuove speranze e di sentimenti fraterni tra gli umani. Gli ultimi versi sono un'invocazione o, meglio, una preghiera del poeta affinché dagli esseri umani  scompaia ogni traccia d'invidia e la loro anima divenga simile ad un'agnella (agna) e tale venga consegnata in dono, come simbolo della nuova umanità, a Gesù Bambino. 




martedì 24 dicembre 2013

Presepe

Aria di zolfo e fumo sparso
per una culla-Simbolo
del genere umano.

Avevo le mani
imbrattate di creta
di forme antiche
palpitanti nella modestia
di un universo docile
alla favola e alla frode.

Presepe,
farsa settecentesca
del mito del Buon Selvaggio,
che moriva di fame, 
saltando come un clown -
i piedi al freddo
le mani sulle castagne.
In vere stalle andava
mia madre levatrice
di natali plebei
e il pianto del bambino
era presagio ai vinti.



NOTA
Presepe è una poesia di Domenico Rea. Fa parte della raccolta poetica Nubi, pubblicata per la prima volta nel 1976 dalla Società Editrice Napoletana; venne poi ristampato in proprio e fuori commercio nel 1984. Da quest'ultima edizione ho estratto la poesia riportata, che è preceduta da una breve prosa. I versi, inizialmente parlano dei ricordi del poeta, relativi alla preparazione del presepe nei giorni precedenti il Natale. Nella seconda parte della poesia c'è una forte critica alla tradizione del presepe, definita "farsa settecentesca". Evidentemente, ciò che infastidisce lo scrittore è il buonismo che, pure con certi simboli del presepe, si diffonde nel periodo natalizio, e non rispecchia affatto la realtà delle cose: la realtà vissuta dalla madre di Rea, che contribuiva, anche nel giorno di Natale, a far nascere i bambini di famiglie molto povere.



giovedì 12 dicembre 2013

L'immagine

Dianzi mi parve (era l'ora forse che cose con sogni
fioca confonde) che un'ombra, pur vana nella sua vita,
sorgesse in fondo al mio specchio come da un'onda sopita,
pallida e come ridesta nel mondo eh'ella obliò.

Ed altra forse non era che la mia ombra dolente,
quella de' vasti silenzi, quella de gli opachi giorni,
quella che passa per plaghe sterili senza contorni,
tacita, e con in cuore solo la vita che fu.

E aveva, sì, le mie mute, vane parole ne gli occhi,
e avea sulla fronte l'ombra densa delle piume nere,
ed un pallore sul collo dolce di trine leggere,
e delle pieghe sul volto di fior che l'uggia appassì.

Ma veniva essa da un mondo ignoto, un mondo lontano,
sola, come mai fu solo chi andò fra i sogni errabondo,
e stava, come d'un'ampia soglia nel vano profondo
sta chi il suo piede soffermi dopo una via che compì.

Oh ma di dove, di dove!... di che perduti Infiniti
portava nelle cave ombre le vaghe luci, i ricordi
che la raggiavan ne gli occhi, come su gelidi fiordi
raggiano i palpiti d' oro dell'inesausto dì?...

Muta parea che scuotesse ora un pesante sudario,
e ancor tremante di qualche suo martirio lontano
lenta passavasi sovra gli occhi la pallida mano,
come chi un pianto rasciuga che nel mistero fluì.

(Luisa Giaconi)



Reynolds Joshua, "Portrait of Miss Hickey"

lunedì 2 dicembre 2013

Il presepio di Greccio

Salgono i frati: vien dalla vallata
la buona gente nella notte fonda.
Fiaccole e lumi segnano i sentieri
e l'aria è immota sotto lo stellato.
Culla la valle suono di campane.
Lieve è il cammino; vanno i passeggeri
recando ognuno un cuore di bambino
colmo di attesa. Van come i pastori
verso il presepio e intorno è tanta pace.

Ecco la grotta, ecco, sospesa,
brilla la stella! Gli occhi desiosi
guardan la greppia, il bue e l'asinello
guardan l'altare; poi ciascuno sogna.
Ma il Santo vede: vede il Dio bambino
piccolo e bianco nella mangiatoia.
Si china; ascolta il tenero vagito,
gli fa culla d'amore tra le braccia
sopra il suo saio povero e sdrucito,
e il cuor divino batte sul suo cuore.

Angeli scendon lungo vie di stelle;
un cielo d'indicibile splendore
s'incurva sul presepe; a tratti, sale
un dondolìo lontano di campane.
Vive ciascuno il sogno di Natale.

(Graziella Ajmone)




Graziella Ajmone (Borgo di Terzo ,1912 – Gardone,1993)  Figlia del dottor Luigi, soprannominato “il medico dei poveri”, svolse l'attività di insegnante di lettere nella scuola media e all’Istituto industriale. Si dedicò anche alla letteratura collaborando a “Fiamma Viva”, “L’indice d’oro” ed “Il Maestro”. Ha scritto versi e prose pubblicati in molti libri rivolti, spesso, ai ragazzi. Si citano, tra gli altri: "Mattutino"; "La storia meravigliosa di Bernadetta"; "Sangue sull’arena"; "Il fanciullo delle Pampas"; "Lo zufolo del pastorello"; "Il bambino che voleva camminare"; "Quando la Madonna raccontava"; "Prima comunione"; "Angeli in mezzo a noi". 



Andrea Previtali, "La Natività"

lunedì 7 ottobre 2013

Lettera scritta di sera

La tua immagine mi visita di sera
in questa città che conosci.
È una sera già quasi autunnale
con autunnali uccelli per il cielo
già vuoto, già spogliato delle foglie
ed una luce scarna, melanconica
come un velo tra il mondo e noi.
Non s'odono campane e anche gli uccelli
volano silenziosi. Che fare
in una sera così sola, assorta
e turbata? Noi siamo lontani.

Ho vagato per la casa deserta
per le stanze così grandi nel buio
coi corpi degli oggetti familiari
abbandonati dal giorno sulla riva.
Esita l'ora, incerta. Anche i libri
giacciono inanimati e non sprigionano
il richiamo sottile. Vaghe ombre
attraversano l'aria e giunte al muro
tastano inquiete, sospirando. Che fare:
scrutare ancora gli avidi fantasmi?
No. Ti scrivo: Poiché siamo lontani...


NOTA
Lettera scritta di sera è una poesia di Francesco Tentori.  Più precisamente, è la prima poesia della sezione Lettere a Vilna (1954-1957), presente nel volume che porta il medesimo titolo della sezione citata e che fu pubblicato da Vallecchi, in Firenze nel 1960. E' una delle poesie più belle del poeta romano. Nel bellissimo libro che ho citato, il poeta inserisce una serie di lettere in versi, la maggior parte delle quali, come si evince dal titolo, sono dirette ad una donna: Vilna. Questa che ho riportato è, in sostanza, una lettera d'amore, che testimonia la sofferenza del poeta per la lontananza della donna. La descrizione del paesaggio autunnale contribuisce a trasmettere una sensazione di profonda malinconia, che solo la presenza di Vilna potrebbe far scomparire.





martedì 10 settembre 2013

Settembre antico

Ogni anno io torno. Io cerco in queste pure
giornate del settembre, una giornata
serena, ma di un vel tenue velata,
non grigia no, ma non azzurra pure.

Che dolcezza il settembre chiaro induce;
tutto è più chiaro e ha tinte di cristallo;
e il verde è un verde che trapela il giallo
leggerissimamente nella luce.

Un presagio di morte erra per l'aria:
il sole è caldo, ma la sera appressa:
palpita già nell'ombra una promessa,
fredda promessa all'ombra solitaria.

Cognite vie, sentieri ove il mio piede
si attarda: e con lui va l'anima mia;
o morta giovinezza, o poesia
morta, e morta con loro o fede, o fede,

come vi trovo ancora in questa mite
ora d'autunno... Ombre, salite: io passo:
sentite voi dal buio ove dormite,
l'eco leggera del mio lento passo?

Mi sembra ancor di camminare come
in qualche sera di un novembre morto:
fa freddo, ed ella ha un poco il viso smorto,
treman nel vento le sue bionde chiome.

Come mai siamo fuori a tarda sera?
Gli altri son dietro, i grandi... Ecco, li udiamo
cantare... Noi si va: noi non cantiamo...
Novembre: l'aria è fredda: ella è leggera...

Stringiti al braccio mio, stringiti ancora,
o fanciullina, stringiti più forte:
or ch'io cammino alla mia fredda sorte
perchè presso non t'ho più come allora?

Oh la villa! Ben questa è come allora...
Noi non ci siamo più: vuota, mi pare...
Chiusa è la porta: tra le imposte chiare
qualche geranio rifiorisce ancora.

Le belle sere d'autunno... Sai,
suonano ancora le campane, a sera...
Chi mai dice il rosario in primavera?
Ma il dì de' morti ne abbiam detti assai.

Ti ricordi il rosario? E le mondine?
Addio, sogni, addio, preci... Io non vorrei
che voi rideste, o amici, o amici miei,
di queste tenerezze settembrine.

Passiam, passiamo... Per la via ben nota
suona il mio piede, e canta un uccellino:
il ciel fiorisce cerulo e carmino,
petali galleggianti in acqua immota...

Che dolcezza, che pace! O autunno, o mio
fedele amore, o mio costante amico,
guardi tu pure il giovanetto antico
con quel tuo sguardo luminoso e pio?

Guardi e compiangi? L'anima lo crede:
sento le foglie stridere, se venta:
una ne cade, lenta lenta lenta:
trema un istante: e mi si posa il piede.

(Da "Il convegno dei cipressi" di Cosimo Giorgieri contri, Galli di Chiesa, Milano 1895)




Una profonda malinconia emerge nella poesia "Settembre antico" di Cosimo Giorgieri Contri. Malinconia mista a nostalgia di un passato che non può tornare. Fa da sfondo un paesaggio di fine estate che il poeta pare voglia trasformare, grazie a vecchi ricordi, in autunnale. Riaffiorano infatti nella sua mente alcuni momenti felici dell'infanzia, quando a novembre passeggiava in quegli stessi luoghi in compagnia di una "fanciullina" che ha perso di vista da tempo. E riemergono le speranze, le gioie e la spensieratezza di quegli anni che sono oramai un lontano ricordo, poiché il poeta ora vive in uno stato di grande tristezza, senza slanci e senza emozioni; per tal motivo ripercorre i sentieri dell'età felice, rivisita i luoghi dove ha vissuto emozioni indimenticabili, provando sentimenti di accorato rimpianto e di compiaciuta mestizia. Oltre che crepuscolare, questa poesia di Giorgieri Contri può essere definita leopardiana per elementi che affiorano senza mezzi termini lungo tutto il componimento come l'intensa malinconia, il rimpianto della fanciullezza e la tristezza inconsolabile.

sabato 31 agosto 2013

Al sonno

Viene la morte, sorella taciturna, ogni sera a trovarmi,
s'accosta coi suoi leggeri piedi calzati di buio velluto,
di tutte le mie tristezze viene a racconsolarmi,
e perdo ogni mio pensiero adorato o temuto.

Ed io, che so, m'accosto con cuore giulivo a ogni sera,
con anima stanca e ansiosa di folle libertà,
e guardo sorridendo, di tra l'oscurità,
venire l'amante bruna, mite, soave, leggera.

- Addio - mormoro allora - odii ed amori, addio!
per quella via che imbocco voi non potete seguirmi... -
E con la bocca ansiosa, sentendo la vita fuggirmi,
bacio le tue labbra dolci, sonno, abbandono, oblio...

(Francesco Di Chiara)





Francesco Di Chiara nacque a Palermo il 6 febbraio del 1905. Sconosciuta è la data della sua morte. La sua raccolta poetica più importante uscì nel 1929 per le Edizioni del Ciclope col titolo Fiabe e consacrazioni. Dei suoi pregevoli versi si occuparono vari critici tra i quali anche Pietro Mignosi.

lunedì 26 agosto 2013

Silenziosa musica di luna

Silenziosa musica di luna
permeandomi l’anima d’incanto,
io lascio la città pel camposanto,
dove melanconia suoi fiori aduna.

E là mi giova rinverdir col canto
tutte le mie speranze ad una ad una,
o, meditando sulla mia fortuna,
con ansia ascoltar salire il pianto.

Melanconica sede! ma fiorita.
Colà si dorme in grembo della morte
che ci ristora per un’altra vita.

E quella dolce musica di luna
fa ch’io pensando alle persone morte,
m’aspetto, quasi, d’incontrarne alcuna.

(Da "Intimi vangeli" di Giulio Gianelli, Streglio, Torino 1908)





Cuore semplice e ingenuo, Gianelli nulla sa delle infinite morbosità spirituali di chi ha troppo vissuto, di chi ha amato ignobilmente, di chi ha abusato del purissimo tesoro che è il sentimento, di chi, mentendo in nome dell'amore, ne volge la virtù benefica in forza malefica.

(Carlo Calcaterra in "Una pagina di vita letteraria torinese. Giulio Gianelli", 1909)


domenica 18 agosto 2013

Piccole e grandi emozioni

I primi raggi di sole del mattino sui muri delle case.
I luoghi dell'infanzia.
Le vecchie foto di persone care.
Rivivere con la mente le cose perdute per sempre.
Piangere di malinconia.
Le poesie di Giacomo Leopardi.
I quadri di Claude Monet.
Un pesco fiorito.
Un prato tutto verde.
Il giardino pieno di fiori colorati.
Il silenzio immenso del bosco.
Il rumore dei grilli durante una afosa notte estiva.
Una farfalla variopinta che si posa su di un fiore.
Un gattino che miagola.
I passerotti che beccano le mollichine sparse in terra.
I gabbiani sulla spiaggia.
Le rondini che volano nel cielo sereno.
L'arcobaleno.
Il mare che luccica in un caldo pomeriggio estivo.
Un tramonto sul mare.
La luna piena che riflette i suoi raggi sulle acque del mare.
Bere l'acqua che fuoriesce da una sorgente montana.
I grandi alberi che lentamente si muovono col vento.
Il sole visto attraverso gli intrichi dei rami di una pineta.
Un viale coperto di foglie gialle.
Il grigiore malinconico cittadino dopo un tramonto invernale.
La tristezza dei fanali illuminati in una sera autunnale piovosa.
La facciata di una bellissima chiesa in un mattino estivo.
Una rosa bianca.
L'Adagio di Tomaso Albinoni.
Le canzoni di Jacques Brel
La incomparabile bellezza di una donna.
Ritrovare un inaspettato divertimento nel gioco.
Le bolle di sapone che volano verso il cielo azzurro.
Il suono delle zampogne che intonano una canto natalizio.
Ricordare un sogno meraviglioso.

domenica 11 agosto 2013

I giocatori

Giocavano su un pezzo di terra
i contadini a carte d'azzardo.
Uno aveva nei denti il veleno
della vittoria e uno
nascosto nella manica
un coltello quanto il braccio.

Venne la luna, vela
sui colli ancora bruni
tra i cerchi del tramonto
e al vincitore i fanti
le donne e i cavalieri
tracciarono una via
perduta ai boschi e illuminata ai lampi
dell'arma inseguitrice.

Alta e sonante in limine,
la vittoria è uno stelo
delle gocce di fiele.

(Da "Nubi" di Domenico Rea, Società Editrice Napoletana, Napoli 1977)




Domenico Rea nacque a Napoli nel 1921 e ivi morì nel 1994. È famoso per la sua narrativa (racconti e romanzi) di ispirazione neorealista. Pubblicò anche qualche volume di versi in cui si definì in tale (modesta) maniera: «Ho qui raccolto questo manipolo di versi scritti nel corso di decenni quale umile omaggio all'inimitabile arte della poesia riservata a pochi eletti. Si considerino pertanto come schizzi e note ai margini del mio lavoro di scrittore in prosa».
Opere poetiche: "L'altra faccia" (1965), "Nubi" (1977).

La domenica della signora Lalla

Quando l'anima è stanca e troppo sola
e il cuor non basta a farle compagnia
si tornerebbe discoli per via,
si tornerebbe scolaretti a scuola.

Oh sì! prendiamo la cartella scura,
il calamaio in forma di barchetta,
i pennini, la gomma e la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura.

E ripetiamo: "S'ode.... s'ode a destra
uno squillo di tromba...", per la via,
o il «Cinque Maggio» o l'altra poesia
che dovrem dir tra breve alla maestra.

Andiamo, andiamo! Il tema è messo in bella!
Andiamo, andiamo! Il tema è messo in buona!
Dio, com'è tardi! La campana suona....
Fra poco suonerà la campanella....

Ma che dico ? È domenica, è vacanza!
Non c'è scuola, quest'oggi: solamente 
c'è da imparare un po' di storia a mente
soli, annoiati, nella propria stanza.

C'era una volta - ora mi viene a mente -
la scuola della festa. Era una scuola
alla buona, così, con una sola
maestra, vecchia, senza la patente.

Signora Lalla, dove sei? T'aggiri
nella tua casa piena di panchetti
o su un quaderno scrivi un 5 e metti
un punto sopra un "i", con due sospiri?

Signora Lalla, hai più nella tua stanza
quel piccolo Gesù di cartapesta
e quei presepi ch'erano la festa
dei bimbi che facean da te vacanza?

Signora Lalla, hai più quel mio ritratto
ch'io ti donai per Santa Eulalia? E quella
treccia, in un quadro, d'una tua sorella
defunta? E l'altarino è ancora intatto?

Forse, sei morta. Ed i tuoi strani oggetti
sono scesi con te, con la tua spoglia
entro la fossa. La tua casa è spoglia
dei quadri, dei presepi, dei panchetti.

Che importa? Io t'amo, e tu sei viva, o muta
imagine che guardi i miei quaderni
d'ora e i noti caratteri vi scerni
con uno sguardo di sopravvissuta!

Come son vani, come son diversi,
signora Lalla, i miei compiti d'ora!
Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora?
Sembra uno scherzo, ma son tutti in versi....

(Da "Poesie 1905-1914" di Marino Moretti, Treves, Milano 1919)






Marino Moretti non ama che il suo passato; e questo passato consiste negli anni di scuola e preferibilmente di scuola elementare. Alla prima infanzia il poeta ripensa con invincibile fissità, con una tenerezza fra commovente e scimunita e, componendo quartine sul sillabario, sulla maestra sui nomi dei compagni allineati in ordine alfabetico, riesce a darci cose di una futile ma inquietante e squisita delicatezza. Leggendo la "Signora Lalla" o il "Sillabario", non è possibile, pur mentre si respinge quell'ozioso fantasticare, comprimere un sorriso di affettuosa simpatia.

(Giuseppe Antonio Borgese in "La vita e il libro", II serie, Bologna 1928)

sabato 10 agosto 2013

Vieni con me

Vieni con me, ti porto 
ai miei orti d’ autunno senza foglie: 
c’è ancora il fermo sole dell'estate 
che dà luce e calore, 
c’è ancora qualche flore 
a consolare le nostre giornate.

Non ti trattenga al tuo livido scoglio
il brivido del mare:
sono amare le rive senza vele
e le onde travolgono gli alcioni;
ma nei miei orti rondini e rondoni
stridono ancora, e sono illesi i cieli.

Vieni con me, togliti dal groviglio 
dei tuoi pensieri grami; 
nell'intrico dei rami, anche se spogli, 
rileggeremo candide parole 
forse... A quel certo tepore di sole 
vieni, che sarà dolce il nostro esilio.

Non tardiamo: ci attendono le siepi
e già nei solchi trepidi c'è seme;
finge il tramonto l'albe dell'aprile:
come olivi stormiscono i ricordi.
Lascia le tetre rive: andiamo insieme
nell'incanto autunnale dei miei orti.

(Da "Il fresco presagio" di Gherardo Del Colle, De Ferrari, Genova 2008)




Gherardo Del Colle (nome d'arte di Paolo Repetto) nacque a Cesino nel 1920 e morì a Pontedecimo nel 1978. Diventò francescano nel 1935 e poi sacerdote nel 1942. Pubblicò vari volumi di versi lungo l'arco intero della sua vita dimostrando un grande amore per la poesia.
Opere poetiche: "Rosso di sera" (1946), "Biancospino" (1957), "Sotto la gronda" (1964), "L'angelo dei suburbi" (1971), "Poesie" (1975), "Il fresco presagio. Poesie 1937-77" (postuma 2008, comprende tutte le poesie edite e inedite di Del Colle).

giovedì 8 agosto 2013

Seguirò il mio Angelo

Quando tutto sarà in ordine
io seguirò il mio Angelo
che mi porterà nel paese
dove il sole non tramonta,
dove tutti si vogliono bene
e le pupille degli uomini
sono chiare come quelle dei bimbi.
Nel paese donde attinsi le voci
della mia poesia, dove mi rifugiai
sempre, dove ritroverò quelli
che mi hanno preceduta.
È questione di attesa.
L'istante è nella mente di Dio.
Se la fiaccola arderà nella notte
seguirò il mio Angelo,
che mi porterà per mano, lieve.

(Da "La carta dispari" di Donata Doni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1968)



Donata Doni (nome d'arte di Santina Maccarone) nacque a Lagonegro nel 1913 e morì a Roma nel 1972. Laureatasi in lettere a Padova, professò l'insegnamento in varie scuole italiane. Si trasferì poi a Roma dove lavorò presso il ministero della pubblica istruzione. Coltivò l'amore per la poesia fin dalla prima gioventù ma cominciò a pubblicare i suoi versi ben oltre i trent'anni. Si spense in seguito ad una grave e lunga malattia.
Opere poetiche: "Orme di nubi" (1949), "L'alba che ignoro" (1954), "Il pianto dei ciliegi fioriti" (1963), "La carta dispari" (1968), "Il fiore della gaggìa" (postuma, 1973),  "Neve e mare" (postuma, 1973).


mercoledì 7 agosto 2013

Lungo la Bormida

Un poco d'ombra, e il cuor trasogna. Sono
colore d'ombra, azzurrate e così
pure, queste mie mani: trasfigurano.

Certo, d'uguale trasfigurazione
s'è fatto arcano il mio volto, ed è calmo
sovranamente: la maschera d'ombra
reca nuovi pensieri,
felicità. Pensieri? sono tenui
come nubi serene nel sereno,
cosa diversa e senza nome, e insieme
con loro io mi diffondo nel respiro
silenzioso audibile del mondo.
E, vagamente, non so se non questo:
che, come un petto umano unico, il mondo
respira, e anch'io secondo questo ritmo,
anch'io son parte di questo respiro.

A me stesso ritorno solamente
per sognare un bel sogno: essere qui
sepolto, senza bara, e alimentare
l'alto vigore d'un albero snello?

(Da "Per non morire e altre poesie" di Aldo Capasso, Berben, Modena 1947)




Aldo Capasso nacque a Venezia nel 1909 e morì a Cairo Montenotte nel 1997. Dopo la laurea in letterature moderne conseguita a Genova nel 1931, si dedicò pienamente alla critica letteraria e alla poesia, collaborando alla «Nazione» di Firenze, al «Corriere della Nazione» di Roma e dirigendo la rivista «Realismo lirico».
Opere poetiche: "Il passo del cigno e altri poemi" (1931), "Il paese senza tempo" (1934), "Cantano i giovani fascisti" (1936), "17 poesie" (1939), "Per non morire e altre poesie" (1947), "Poemetti in prosa" (1951), "Formiche d'autunno" (1952), "Recitativi, quasi meditazioni" (1958), "Turno di notte e altri poemetti in prosa (1963).

Ore sole

Dal tetto cadon giù 
un dopo l'altra l'ore:
le lascia giù cadere
l'orologio a martello,
in colpi secchi, uguali,
tutte sul mio cervello.
E ognuno di quei colpi
m'è come una puntura,
come se mi strappassero un capello.
Ore sole come solo pane, 
per oggi e per dimane, 
e per tutti i giorni 
di tutte le settimane.
Mattutine, vespertine,
popolate da campane
vicine e lontane.
Ore del sole, 
che non ridete
a chi v'aspetta sole.
Ore grigie, ore nere,
silenzio delle campane
vicine e lontane.
Vien da qui presso
spampanato il coro
dell'antico convento 
delle Nazarene,
sfogano in coro le loro pene
a tutte le ore,
anche per esse l'ore son sole.
«Al Ciel, al Ciel, al Ciel! 
La Gloria o Signor!»
Ore della notte, 
ore del sole,
uguali tutte
che non ridete 
a chi v'aspetta sole.
Ore sole come solo pane,
per oggi e per dimane,
e per tutti i giorni 
di tutte le settimane.

(Da "Poemi" di Aldo Palazzeschi, Ed. di Poesia, Milano 1909) 




Per Henri Bergson «la durée réelle est ce que l'on a toujours appelé le temps, mais le temps perçu comme indivisible». In chiave comica Palazzeschi enuncia la tesi contraria: il tempo è divisibile, viene vissuto come entità misurabile: le ore cadono sul cervello, ognuna di esse strappa un capello. Ore sole esprime l'ennui del rentier, di chi è escluso dal processo produttivo; ma al tempo stesso la noia, come «disperazione oggettiva», dilaga sul mondo, anche su coloro che lavorano. Il sempreguale s'intronizza dispotico: Palazzeschi in questa e in altre composizioni, a modo suo, cioè quanto più possibile lontano dalla metafisica, ne sancisce l'ecumenicità.

(Da "La nascita dell'avanguardia" di Luciano De Maria, Marsilio, Venezia 1986)

domenica 4 agosto 2013

Chi mai confuse la morte con il sonno

Chi mai confuse la morte con il sonno:
l'addormentato non è un animale,
nel sonno la parola non scompare,
la jena lascia chi dorme, ruba il morto;
nel sonno la parola non scompare,
l'addormentato non è un animale:
chi mai confuse la morte con il sonno.

(Juan Rodolfo Wilcock)




JUAN RODOLFO WILCOCK (Buenos Aires 1919 - Lubriano 1978)
Nato in Argentina da padre inglese e madre di origine italiana, si trasferì in Italia nel 1958. Collaboratore, fra l'altro, del «Mondo», «La Nazione», «La Voce Repubblicana», è autore di varie raccolte di poesie, alcune delle quali pubblicate in Argentina, in lingua spagnola, e poi in parte tradotte da lui stesso in italiano.
Opere poetiche in lingua italiana: "Luoghi comuni" (1961), "Poesie" (1963), "La parola morte" (1968), "Italienisches Liederbuch. 34 poesie d'amore" (1974), "Poesie" (1980).  

(Da "Dizionario della letteratura italiana del Novecento", diretto da Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1992)

sabato 3 agosto 2013

Convalescenza

Il primo sole dopo tanta attesa!
Oh, come dolce, come puro! Sente
d'infanzia... la sua carezza è scesa
fino al mio letto, e reca odor di mente...

Voglio levarmi... Ma tu sai: l'offesa
dell'aria è grave e mamma non consente...
Oh! quanta luce! L'anima n'è presa,
ma troppo sole pel convalescente!

Chiudi le gelosie, piccola rete
verde, che al sole, al gran fanciullo biondo,
ruba qualche sua ciocca, e me la porge;

e giuoco e la mia mano non s'accorge
ch'intreccia l'oro, e l'occhio nel profondo
letto veglia le tristi ombre segrete...

(Da "Le piccole morte" di Fausto Maria Martini, Streglio, Torino 1906)




Il tema della malattia e della convalescenza in chiave crepuscolare sospende lo stesso scorrere dei giorni (ogni giorno è nessun giorno) e si apre su una condizione di inerzia espressa con termini solitamente privi di consistente riferimento materiale. Sicché il crepuscolarismo di Martini, anche attraverso una valutazione approssimativa, appare ormai definito almeno in una delle sue componenti essenziali, in quanto la condizione di inerzia, divenuta immagine, delimita l'orizzonte artistico del poeta, ancorato alla minuta analisi del peso della quotidianità, in cui il colloquio, l'ironia e il passato restano motivi di inciampo e pressoché statici.

(Da "Vent'anni o poco più" di Giuseppe Farinelli, Otto/Novecento, Milano 1998)

lunedì 29 luglio 2013

Un'ora dolce

Non so che cosa sia
ma sento che la vita mia
è diventata tutta tenerezza.
Il cuore è senza un grido di terrore,
oggi. Il mare si riposa:
non canta il mio dolore e gli sorrido.
Che giorno di dolcezza!

Allora non dicevo questo. E’ vero.
L’anima in convalescenza
è tutta sogno, tutta trasparenza.
Sente la sensazione anche più fina.
Ci credi? Una mattina
a Fiumicino credevo che il sangue del cuore
mi fosse diventato tutto nero.

E bene mi rammento ch’era vero.
Malattia, malattia!
Ma son tornato, come te, normale.
Né ti parlo del mio male
più. Non vedi che sono guarito?
Oggi il mio cuore l’ò tutto addolcito
da tante sensazioni nuove e strane.

Dolcezze, tenerezze alte del cielo!
Oggi ò sognato il timo e l’asfodelo
de le tue tanche lontane.
Il cielo è senza nuvole ed il mare
bacia la rena e canta e vuol cantare.
Mi sento fresco come un rivo e canto
anch’io come una quercia del tuo bosco.

Oh sono uscito da un abisso fosco
d’incubi e di paure,
fratello, fratello!
Ò fatto paura a te pure,
vero? Ero il terrore muto!
Tu pure ài creduto 
che uccidessi o m’uccidessi.

Rammento. Quanti mormorii sommessi
quando camminavo solo
col dolore!
Ma come avvenne? Io non avevo mai
cantato ed ecco a tutto quel dolore
cantavo come canta un rosignolo
che muore tra i rosai.

Facevo pena: forse anche atterrivo.
Morivo e non morivo.
Quando passavo v’era anche qualcuno
che udiva il rimbombare d’un martello
sui chiodi di una bara.
Forse la stessa sensazione amara
l’avevi tu pure, fratello!

Ma non ti parlerò di questo male
più. So che tu sai.
Io sono un altro. Ò dentro gli occhi un lampo
di Sole. Il campo
è verde. Io vò tra questo vegetare
e penso ancora a te che fosti un rude
lavoratore.

Oh, la gioia delle braccia nude
nel Sole! Camminare sotto il sole,
Lavorare e lavorare e non udire
la noja de l’ore,
sentirsi bagnare la fronte
di molto sudore,
e stanchi cercarsi una fonte.

a mezzo dì, per riposarsi, quando
le cince e le cicale
cantano pazze di sole!
Ora lo so come mi fece male
il veleno di tante parole
scialbe, isteriche, dette a la penombra
di qualche salottino

profumato di muschio, di belzoino,
e pasciuly!
Troppo mi piacque ciò ch’era snervante;
le cipria e il rossetto e l’artefizio
fino de le parole. Sono stato
io pure un damerino verniciato
un seduttore esperto ed elegante.

E poi venne il supplizio.
M’ammalavo senza l’aria!
Ed ora m’àn guarito il mare il sole.
Credimi: in Fiumicino
ò ricordato spesso il tuo passato,
tutte le tue parole 
velate di saggezza e di bontà.

Il cuore mio lo sa
come ànno lavorato le tue braccia,
ne l’arsura
del monte, de la tanca e de la duna
bianca e deserta lungo la marina.
T’ò invidiato.

Ma ora sono tanto mutato!
Distinguo come te la foglia dalla foglia,
canto da canto, amo gli uccelli e i fiori,
e un giorno anch’io li chiamerò fratelli
come tu fai 
i piccoli lavoratori 
i luridi mendichi.

Io pure so la via
migliore. Oggi, se lungo il sentierolo
di questa prateria
trovo qualcuno che si duole, io pure
avrò quel suo dolore nel mio cuore:
non sarà solo.
Io sono la dolcezza.

Ah sento che la vita mia
è diventata tutta tenerezza.
Non so che cosa sia,
ma il cuore è senza un grido
di terrore. Il mare si riposa:
non canta il mio dolore oggi. Sorrido.

(Poesia di Yosto Randaccio tratta da "La Vita Letteraria", giugno 1905)




YOSTO RANDACCIO (Cagliari, 1880 - Roma, 1965)

Di origine sarda, fratello della medaglia d'oro Giovanni, l'eroe del Timavo, trascorse in Roma la giovinezza, frequentando l'università della capitale e partecipando al circolo letterario che viveva attorno a Corazzini e collaborava a "La Vita Letteraria", "Rivista di Roma", "L'Italia moderna"ecc. I suoi versi si leggono sulla "Vita Letteraria"; il Mannoni lo dà come suo collaboratore a "Primo Vere"; ma ci mancano altri testi documentali della sua attività letteraria. È comunque ricordato da Donini per le sue parentele spirituali con Corazzini ed è più spesso evocato da vecchi sopravvissuti di quel cenacolo romano.
L'unica raccolta delle sue poesie è la seguente:
"Poemetti della convalescenza", Cagliari, Tip. Meloni-Aitelli, 1909.

(Da "I Crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Ed. del Borghese, Milano 1966) 

venerdì 26 luglio 2013

Elegia per attendere la sera

La luna è ancora in grembo ai colli, e i colli
son forse ancora tiepidi di luce.
Restiamo. È l'ora del silenzio, e molli
son gli orti ove la sera ci conduce.

I villaggi che han visto per le vie
passar fanciulli con in mano steli
di gigli, or pieni son di litanie
e di squille annunzianti gli evangeli.

In qualche ovile belano gli agnelli.
Per qualche strada un bianco gregge sale.
Il cimitero ha chiuso i suoi cancelli.
Gli angeli in chiesa han ripiegate l'ale.

E tutto questo come un sogno, oppure
come un ricordo vago e impallidito:
qualche cosa d'angelico, tra pure
squille in cammino verso l'infinito...

Come un rumore d'anime; qualcosa
che s'è assopito in mezzo ad un lamento:
dolorava, era triste; ora riposa
nella penombra, placido e contento.

C'è qualcuno nel carcere, che prega!
Quest'ora è troppo dolce e troppo lieve:
si direbbe che un albero si piega
sotto il tacito peso della neve.

Ed è la sera che inazzurra i cieli...
Tutto è calmo. Le rondini son calme.
Son calmi i tetti, le anime, gli steli,
e chi pianse col volto fra le palme.

Anche le cose sono rassegnate
a essere, e in questo attendere la sera
c'è il perchè della vita. Son passate
là sulle rose le dolcezze a schiera.

E noi? Saremo noi che, cuore a cuore,
attenderem la sera inginocchiati,
con tra le mani il calice d'un fiore
appassito al tepor dei nostri fiati?

O altri saranno ad aspettarla, ignoti,
quando noi ce ne andremo a mani giunte,
a capo chino, come due divoti,
pregando per le vergini defunte?

Saremo noi che quando, sopra i monti,
bianchi rosari e mistiche ghirlande
di stelle invano sogneran le fronti
delle madonne, e le lor mani blande,

saremo noi che annuncierem la luna
pallida e lieve dopo l'imbrunire,
o altri saranno presso qualche cuna,
che la vedranno nascere e morire?

(Da "Versi e novelle di Fausto Valsecchi", Ettore Bartolozzi editore, Lecco 1966)




COMMENTO

Strette ed evidenti affinità, si diceva, fra questi due giovanissimi poeti, il Corazzini ed il Valsecchi, per la loro precoce attività, per la loro immatura scomparsa, per gli elementi stessi della loro poetica, sostanziata d'immagini che presto diverranno tropi, o stilemi, ossia si faranno maniera, contrassegni tipici e convenzionali di tutta la corrente.
[...] Si potrebbero qui enucleare dai contesti poetici del Valsecchi - e farne un lungo elenco - questi spunti convenzionali, questi tropi di cui si è detto, che formano altrettanti nuclei attorno ai quali si dispone l'esile trama delle sue effusioni sentimentali, il ricamo delle cadenze e delle rime, quella musicalità sempre sospirosa entro cui pare a volte che la sua poesia si esaurisca del tutto.

(Da "La poetica crepuscolare e Fausto Valsecchi" di Carlo Del Teglio)

mercoledì 24 luglio 2013

Invocazione

Opera! solennità di parola:
il profumo e l'armonia,
la bellezza e la bontà,
la parvenza del sogno lontana,
la bolla sospirosa,
che ascende, su dal mistero,
dal mar de l'idee.

Opera! tragica forma:
tanto d'amore, che la illumini,
tanto di rinuncia, che l'affini;
equità sempre, ragion di vita,
se terrena ruggisca,
come un alato trasvoli,
o indugi nel grembo a li oceani;
se porga ai solchi il corrotto,
come una viola,
verzichi tra chiare acque,
pallida ninfea,
o a l'etere, spiritual cibo,
come il fiore de l'aria,
protenda le sobrie radici.

Opera: sfinge suprema,
bacio di vane labbra e carnali,
copula mal secura
d'amor voluto e inconscio,
alba gaudiosa del cuore,
miraggio breve de l'ingegno,
passione e martirio del braccio, -
creatura strana,
creatura maledetta e adorata,
come una femminile unità,
che riaccenda, improvvisa
al tepor de le nuove fiamme,
la sanguinosa angoscia
de le antiche piaghe.

Opera! specchio e rivelazione
de le fragili anime,
de le grevi sustanze;
miracolo a la fede, a l'arte, a l'amore;
opera, sferza e fulcro.

(Da "Dialoghi d'esteta" di Romolo Quaglino, Treves, Milano 1899)



martedì 16 luglio 2013

Oggi non usciremo...

Oggi non usciremo: aspetteremo il frate
del convento per la cerca, il vecchio frate Valerio
dal passo grave perché conosce tante miserie...
Egli ci tenne in braccio appena appena nati!

Anima dolce e selvaggia come una rosa canina
e sensitiva più d'una mimosa-pudica,
tu sai quanta dolcezza sentimmo stamattina
nel destarci dal sonno, che, pure, ci parve fatica:

come se noi dormissimo in una stanza piena
di soavi oleandri. Ebbene, qualche dolcezza
vaga saprà velare la nostra vaga tristezza,
e certo ci farà lieve la pesante catena

dell'inutile vita. Aspetteremo il frate
e a lui domanderemo se da bimbi eravamo
allegri o melanconici. S'egli dica: «Eravate
lieti», noi penseremo che lieti ancora siamo.

S'egli dica: «Una dolce tristezza v'era negli occhi»,
noi penseremo: «Ancora!». E, piegando i ginocchi,
anima, ci sembrerà che sui nostri destini
navighi come una triste letizia di bambini.

(Da "Canti delle osai" di Arturo Onofri)



COMMENTO

Tra i poeti che, pur rimanendo ben distinti, si avvicinarono molto alla poetica dei crepuscolari, non può certo essere dimenticato Arturo Onofri, poeta romano che cominciò a pubblicare versi nel 1904 sulla "Vita Letteraria" e che, dopo i primissimi volumi di liriche, si rivelò seguace del crepuscolarismo con "Canti delle oasi" (1909), dove si notano evidenti riferimenti sia al "Poema paradisiaco" di Gabriele D'Annunzio, sia a "De l'Angélus de l'aube à l'Angélus du soir" di Francis Jammes; due opere, queste ultime citate, fondamentali per molti poeti crepuscolari. La sezione "Poemi del sole" di "Canti delle oasi" comprende il maggior numero di componimenti che rasentano il crepuscolarismo.

sabato 13 luglio 2013

L'assenza

Un bacio. Ed è lungi. Dispare 
giú in fondo, là dove si perde 
la strada boschiva che pare 
un gran corridoio nel verde. 

Risalgo qui dove dianzi 
vestiva il bell'abito grigio: 
rivedo l'uncino, i romanzi 
ed ogni sottile vestigio... 

Mi piego al balcone. Abbandono 
la gota sopra la ringhiera.   
E non sono triste. Non sono 
piú triste. Ritorna stasera. 

E intorno declina l'estate. 
E sopra un geranio vermiglio, 
fremendo le ali caudate 
si libra un enorme Papilio... 

L'azzurro infinito del giorno 
è come una seta ben tesa; 
ma sulla serena distesa 
la luna già pensa al ritorno.   

Lo stagno risplende. Si tace 
la rana. Ma guizza un bagliore 
d'acceso smeraldo, di brace 
azzurra: il martin pescatore... 

E non sono triste. Ma sono 
stupito se guardo il giardino... 
stupito di che? non mi sono 
sentito mai tanto bambino... 

Stupito di che? Delle cose. 
I fiori mi paiono strani:   
ci sono pur sempre le rose, 
ci sono pur sempre i gerani...

(Da "I colloqui", Treves, Milano 1911)  




COMMENTO

"L'assenza" di Guido Gozzano descrive uno stato d'animo puro, sorgivo, senza le complicazioni intellettualistiche e i modi ironici consueti. L'amata è partita, ma ritornerà stasera: il poeta guarda nel suo animo e non vi ritrova tristezza o nostalgia, ma una pura serenità raccolta, e la riversa nella pace immota del paesaggio. Dovunque, in sé, nelle cose, ritrova un'elementarità di vita fanciulla, una felicità senza tempo e senza dolore, un puro esistere sereno, inconsapevole, che gli dà il senso d'una vita rinnovellata.

(Mario Pazzaglia da "Antologia della letteratura italiana", Zanichelli, Bologna)

martedì 9 luglio 2013

Il giardino del dolore

Il dolore mi ha fatto un giardino di anemoni e gigli. Lo chiudono aspre mura di diaspro sanguigno, un altissimo giro di pioppi lo ricinge e l'eterno silenzio vi ha suggellata l'unica fontana.
Nulla si muove o vive visibilmente nella preclusa terra. Io vi scorro, solo, a ricercarne gli echi poichè il mio respiro e il battere del mio cuore trovano un respiro, un battito di cuore uguale là, dove solo la mia ombra trascorre.
E non conosco le vie che vi conducono.
Io vi giungo inavvertitamente, a quando a quando, poichè dove io sono non sono, molte volte, e il mio pensiero raminga sul cammino del desiderio, della morte, di ciò che non fu, di ciò che non sarà mai. Così il dolore mi ha fatto un giardino di anemoni e gigli senza una fonte, senza un ruscello, senza un alito di vento: chiuso ed infinito. Tutta la vita mia è là dentro, la riconosco, la mia vita interiore, quella che nessuno seppe, che nessuno saprà mai è là dentro fra le alte mura di diaspro sanguigno. Ed io vedo me stesso in ogni cosa; vedo ciò che nacque di me come la ninfea dal limo, come la fiamma e la colonna di fumo dall'aspro ceppo; ritrovo ciò che fu mio, ciò che accarezzai, ciò che mi disse: - Cammina! - ciò che mi aggrovigliò nello spasimo del non potere. Tutta la mia vita interiore di tanti anni: dalla incosciente gioia alla gioia cosciente; dalla tristezza indeterminata al dolore profondo; tutta la mia vita nelle sue lotte, ne' suoi spasimi, nelle sue elevazioni, ne' suoi desideri, ne' suoi sogni, nel suo amore non può più smarrirsi, non può più disperdersi perchè il dolore l'ha chiusa nel suo incantesimo in un paese ch'io non so, dove giungo inavvertito. E quando tu vedi quasi atone le mie pupille e mi chiedi:
- Che pensi?
Ecco io sono laggiù, vecchio mio, io non ho udita la tua parola, ho dimenticato la tua presenza, io non son più dove sono: come un viandante costretto ad errare, il mio pensiero ha preso un cammino ignoto a me stesso.
Puoi tu condannarmi? Puoi tu dirmi: ti trovo io tanto lontano quanto più credevo di averti da presso? - Certo nessuno più di me ti ama, vecchio Faunus; nessuno intende, come io intendo, quale sconfinato amore ti abbia tratto dal tuo silenzio per le genti che si ridestano e che tu vuoi trarre su le grandi vie di un tempo; ma non si cancella ad un tratto un'orma secolare e il tuo discepolo non è sempre come tu vorresti, non così stoico, non così forte, non così fermo in sé stesso come tu vorresti.
Pure sorridi e perdoni, tu che m'intendi, poichè nulla ti è occulto di questo mio mondo.
Ed io riprendo il mio viaggio verso il giardino che eternamente rifiorisce, che non conosce periodici sonni, che, dopo la mia morte, nel tempo infinito, starà come stanno le forze immanenti dalle quali ha origine il gran mare degli esseri e delle forme.
E laggiù vive il mio amore dai grandi occhi atoni e vuoti. Isolato laggiù dalle alte mura di diaspro sanguigno, sogna, il mio amore, il mio triste amore che e non vive e non potrà vivere mai.

(Da "I canti di Faunus" di Antonio Beltramelli)


Aladár Kacziány, "Garden"

giovedì 4 luglio 2013

La psicologia dei ritratti

Ne le cornici d'ebano, i ritratti
quante storie secrete si raccontano
piano, tra loro, quanti mesti fatti
i cui ricordi friabili già smontano!

In un quadro le dagherrotipie
ritraggon tutte de le vecchie dame,
de le dame da le fisionomie
vizze e da le gonnelle col fiorame:

de le duchesse con il guardinfante
e i larghi sboffi, e la scriminatura,
qualche riproduzione d'un Infante
biondetto da la torva guardatura.

In un altro de le fotografie
moderne mostrano dei neonati
e de le placide fisionomie
d'avole e di defunti dissanguati:

una vecchietta porta una sottana
fuori di moda, una pettinatura
di foggia ingenua, un'altra una collana
di coralli di nobile natura;

un bel giovine (che sia morto etico?)
perpetua la tristezza del suo sguardo,
una sposa in un suo dito ermetico
tiene un anello d'argento, testardo

testimone d'una felicità
seppellita da chissà mai quanto!
(quel corpo fatto per la voluttà
ora è cenere dentro un camposanto...)

Pupille ancora vive, labri
come sfogliati, rughe approfondite,
e pomelli digiuni di cinabri,
chiome svanite, mani rattrappite.

Un bambolino, morto, sul suo letto,
pallido, sotto il vetro à il suo mannello
di capelli e sul bianco lenzuoletto
contro il cuore il giocattolo novello.

Qualche educanda d'un conservatorio
regge in mano con edificazione
un parrocchiano lucido d'avorio
o il bouquet de la prima comunione.

(Da "Armonia in grigio et in silenzio" di Corrado Govoni, Lumachi, Firenze 1903)



COMMENTO

In La psicologia dei ritratti Govoni raccoglie tutta la sensibilità e i motivi della poesia crepuscolare.
La presenza di due oggetti emblematici, di due stagioni e tempi diversi: i ritratti nelle cornici d'ebano e le moderne immagini in fotografia nei cui spazi ridotti possiamo ritrovare come in uno scrigno segreto, tutto da esplorare, tante e tante vicende che raccontano uno stile di vita, un modo di vestirsi e di acconciarsi, ma che rivelano, prospettivamente, anche la sottile malattia di un bel giovane e la sua morte, la vanità della bellezza sfiorita dal corpo, un tempo voluttuoso, di una giovane sposa. Tutto ciò è detto e riferito in sequenza da Govoni con impercettibile rimpianto.

(Da "Invito a conoscere il crepuscolarismo" di Antonio Quatela, Mursia, Milano 1988)