venerdì 28 giugno 2013

Rimuore

Fine d'un giorno: nella vecchia stanza
sui ritratti dei morti, alle pareti,
anche una volta muoiono i segreti
sorrisi, poiché l'ombra avida avanza.

Son venute due donne, cui l'Assente
guarda con occhio d'angelo in esiglio:
l'una pensa il fratello, e l'altra il figlio
che dorma un sonno di convalescente...

E si tacciono per non ridestarlo:
grave il silenzio nella polverosa
stanza, odorata di cera e di rosa...
A quando a quando, il rosicchio di un tarlo.

- Com'era bello! È morto a sedici anni,
nel suo collegio, è morto d'etisia,
senza saperlo, senza l'agonia,
è morto a sedici anni! a sedici anni! -

- Era l'aprile e lui se ne morì...
E guardava i pavoni nel cortile,
lenti, tra le colonne: il due aprile!
Com'era bello vestito così -

L'ultima luce indugia tra i fiorami
delle cortine, e già s'è fatta sera:
ridono nella falsa primavera
uccelli strani sopra rosei rami...

Dal dolce sonno il bel convalescente
s'è desto per la vergine sorella...
vanno pei campi, seguendo una stella,
(quante d'agosto!) una stella cadente...

Non pensa le fiorite dei ciliegi
l'altra, se guardi ai pallidi fiorami,
ma certi libri antichi di botanica,
a fin d'anno donati nei collegi...

(Da "Poesie provinciali" di Fausto Maria Martini, Ricciardi, Napoli 1910)




COMMENTO

In Rimuore, il giovane collegiale morto a sedici anni, rievocato da un suo ritratto nella polverosa stanza «odorata di cera e di rosa», ricorda certo il collegiale di Francis Jammes in Il y a par là¹; ma proprio la puntuale reminiscenza rileva la deviazione del modello. Il collegiale di Jammes s'inserisce nell'evocazione di vecchie cose e persone morte, è soltanto un particolare tra gli altri che creano l'atmosfera melanconica del vecchio castello; quello di Martini è l'oggetto quasi unico della poesia, cioè l'adolescente, l'ambiente del collegio, con quell'insistere sull'aprile, mese di rinascita della natura e delle speranze umane, che contrasta con la morte del giovane, e ritornerà come suo tema prediletto. E soprattutto quel che muore è lui nel ritratto, una seconda volta, non nella «chambre froide», ma in quella quasi conventuale, «odorata di cera e di rosa», come gli ambienti cari ai crepuscolari romani in vena di emozioni pseudo-religiose. Muore nel ritratto, come le cose abbandonate dagli uomini ma capaci di rivivere in virtù del ricordo.

(Aurelia Accame Bobbio)




NOTE

1) Ecco, per completezza, la poesia citata di Jammes in lingua originale:

IL Y A PAR LA'

Il y a par là un vieux château triste et gris
comme mon cœur, où quand il tombe de la pluie
dans la cour abandonnée des pavots plient
sous l’eau lourde qui les effeuille et les pourrit.

Autrefois, sans doute, la grille était ouverte,
et dans la maison les vieux courbés se chauffaient
auprès d’un paravent à la bordure verte
où il y avait les quatre saisons coloriées.

On annonçait les Percival, les Demonville
qui arrivaient, dans leurs voitures, de la ville.
Et dans le vieux salon soudain plein de gaîté,
les vieux se présentaient leurs civilités.

Puis les enfants allaient jouer à cache-cache
ou bien chercher des œufs. Puis dans les froides chambres
ils revenaient voir les grands portraits aux yeux blancs,
ou, sur la cheminée, de drôles coquillages.

Et pendant ce temps les vieux parents se parlaient
de quelque petit-fils au portrait peint à l’huile,
disant : il était mort des fièvres typhoïdes,
au collège. Que son uniforme lui allait !

La mère qui vivait encore se souvenait
de ce cher fils mort presque au moment des vacances,
à l’époque où les feuilles épaisses se balancent
dans les grandes chaleurs auprès des ruisseaux frais.

Pauvre enfant ! — disait-elle — il aimait tant sa mère,
il évitait toujours de faire de la peine.
Et elle pleurait encore en se rappelant
ce pauvre fils très simple et bon, mort à seize ans.

Maintenant la mère est morte aussi. Que c’est triste.
C’est triste comme mon cœur par ce jour de pluie,
et comme cette grille où les pavots roses plient
sous l’eau de pluie lourde qui luit et qui les pourrit.

(Da "De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir: 1888-1897") 

martedì 25 giugno 2013

Il «voltagabbana»

Cercano il voltagabbana
per fucilarlo.

Con alle tempia
la pistola
sono sereno

come se il terremoto
m'avesse squassato
la coscienza.

Riemergono i volti
dei morti compagni:
con loro ho creduto
ubbidito
combattuto.

Lui ci misurava
dai garretti
il prete ci benediva
e il re ci mandava
a morire: Savoia!

I partigiani
mi scrutano dentro:
parlottano
con la pistola puntata.

Avanti: ti mettiamo 
alla prova.

(Da "Il voltagabbana" di Davide Lajolo, Mondadori, Milano 1963)




Davide Lajolo nacque a Vinchio (Asti) nel 1912 e morì a Roma nel 1984. Militante fascista, partecipò alla seconda guerra mondiale e, dopo varie vicissitudini, entrò a far parte della Resistenza. È stato redattore capo e direttore dell'«Unità», parlamentare, autore di romanzi (Classe 1912, 1953; Quaranta giorni, quaranta notti, 1955; Il voltagabbana, 1963), saggi (Cultura e politica in Pavese e Fenoglio, 1971) e poesie (Nel cerchio dell'ultimo sole, 1940)



Parco umido

Il parco è serrato serrato serrato,
serrato da un muro ch'è lungo
le miglia le miglia le miglia,
da un muro coperto di muffe,
coperto di verdi licheni,
grondante di dense fanghiglie.
Né un varco soltanto nel parco traspare
né un foro vi luce,
soltanto si posson le muffe cadenti
vedere, soltanto
le dense fanghiglie grondanti.
Altissimi i cedri ne passano il muro,
i pini dal fusto robusto ne sporgon l'ombrello 
s'innalzan cipressi, rossastre magnolie,
e salici, e salici tanti
piangenti di pianti lontani,
che mischian sul muro cadenti
le lagrime ai verdi licheni,
a grige fanghiglie grondanti.
Di fuori ecco il parco serrato,
serrato da un muro
eh'è lungo le miglia e le miglia.
Fra l'ombre, fra l'ombre potenti
nel folto degli alberi grandi
soltanto tre donne s'aggirano lento,
bellissime donne: Regine Parenti.
S'aggirano lento in silenzio
ne l'ombre del parco serrato,
pesante trascinano il manto di lutto, le Donne,
coperte da un velo
che appena il pallore del volto ne scopre.

(Da "Lanterna" di Aldo Palazzeschi, Balnc, Firenze1907)




COMMENTO

Il paesaggio crepuscolare si smorza nei toni, nei colori, soffoca la luce, si restringe all'interno di perimetri ben delimitati, recintati, che solo apparentemente chiudono l'orizzonte all'uomo e al poeta. Gli orti delle case, dei conventi, i giardini, i parchi delle ville, i solai, i salotti sono il nuovo spazio entro cui si muove e nei quali scopre e ricorda l'universo intorno.
Questa nuova visione topica e percettiva di una natura cintata da mura ricoperte da muffe e fanghiglia, senza che un filo di luce possa penetrarvi, diventa un pretesto per Palazzeschi per indicare uno stato d'animo di solitudine, di malattia della coscienza.

(Da "Invito a conoscere il crepuscolarismo" di Antonio Quatela, Mursia, Milano 1988)

sabato 22 giugno 2013

Tramonto triste

Quando piove d'autunno, e a poco a poco
Rabbrividendo ogni albero si spoglia
E per il mondo passa un sospir fioco,

Folle o bambino, sento in me la voglia
Di piangere pur io col ciel, co' rami
Quasi varcassi paurosa soglia.

Eppur d'inverno i dì son brevi e grami,
E il sonno è lungo, e la speranza dorme
Accanto al fuoco, tra i vecchi legnami:

Passano l'ore e son tacite l'orme
Sul nostro cuore, ed i fremiti ha cupi
Il vento, e i sogni hanno placide forme:

Muoiono i vecchi, discendono i lupi.

(Da "Veli" di Francesco §Giacomucci, Pierro, Napoli 1898)





Francesco Giacomucci nacque a Vasto nel 1872 e morì a Napoli nel 1950. Dopo la laurea in Giurisprudenza iniziò a collaborare con varie riviste letterarie e nel contempo iniziò la carriera professionale fino a divenire magistrato di fama nazionale. In gioventù scrisse versi di sapore dannunziano e decadente che pubblicò in due volumi: "Caro infirma" (1895) e "Veli" (1898).

Chiesa rurale

Nel mattino riposa
la chiesa umile e cheta:
quasi la rende lieta
un chiarore di rosa.

Vanisce un'alta pace
fra i dipinti sbiaditi:
negli scanni scolpiti
stride il tarlo, tenace,

fra i parati turchini:
dal vecchio sfondo d'oro
guardan rigidi il coro
tre santi bizantini.

Saettando fra' travi
van le rondini a' nidi,
liete, con brevi gridi:
giungon di fuori soavi

i profumi del prato:
per la navata cheta
olisce la segreta
poesia del passato.

Ella un dì qui pregò
pel mio, pel suo peccato.
Oh, l'han riconsacrato
il luogo ove passò

la carezza odorosa
della veste di seta?
La chiesa umile e cheta
nella pace riposa.

(Da "L'Urna" di Guelfo Civinini, Alighieri, Roma 1900)




COMMENTO

"Chiesa rurale" di Guelfo Civinini (Livorno 1873 - Roma 1954) rientra di diritto in quella categoria poetica che mostra un repertorio tematico ben preciso, quello cioè rientrante nella sfera del sacro, molto sfruttato sia da alcuni poeti decadenti che, in seguito, da alcuni poeti crepuscolari. Si assiste infatti, soprattutto nei primissimi anni del XX secolo, all'apparizione di una gran quantità di versi (presenti su riviste o in volumi) che parlano di chiese, santi, suore, ceri, lampade votive, preghiere, tabernacoli, madonnine e ancora altri oggetti o personaggi attinenti alla religione cristiana. Civinini, insieme a Diego Angeli, fu uno dei poeti che inserirono maggiormente, nelle loro poesie, questi elementi citati; per tal motivo (e non solo) alcuni critici parlarono e parlano, a proposito di certa poesia primo-novecentesca, di neomisticismo.

martedì 18 giugno 2013

Una croce

Quando mi han seppellito hanno scambiato la croce.
Un uomo panciuto viene assai di lontano
con lo spolverino e gli occhiali
e piange sulla mia tomba.

Mi porta dei fiori.
Ha detto che mi farà fare una colonna di marmo
ed una cassa nuova.

Talvolta amerei di sapere
per chi
quel buon uomo mi prende.
È lo stesso; ma credo
che se lo sapesse
rimarrebbe seccato.

(Da "La chitarra del fante" di Giuseppe Steiner, Porta, Piacenza 1920)




Giuseppe Steiner nacque ad Urbino nel 1898 e morì a Torino nel 1964. Pubblicò la sua prima raccolta poetica: "La chitarra del fante", nel 1920, mettendo in luce la sua straordianria ironia unita ad una spiccata fantasia che lo inseriscono nella migilore lirica futurista. Proseguì la sua militanza nel movimento marinettiano con "Stati d'animo diseganti" (1923), opera altamente sperimentale. Il suo ultimo volume di versi uscì nel 1939, col titolo: "Nostalgie del profondo".

Assonanze

Due alcioni
su l'infinito mare,
un mare grigio con dei toni
tediosi d'un pallor crepuscolare.

Una piuma 
di cigno, galleggiante
in un palude tra la spuma
che ribolle dalla triste acqua sognante.

Una stanza
solitaria e silente,
dove ondeggia l'acre fragranza
delle cose abbandonate lungamente.

Una bianca
malata in un gran letto
profondo, che piega la stanca
fronte in atto di languore sopra il petto.

Un amore
lungamente taciuto,
lungamente chiuso nel cuore,
lungamente dall'amante sconosciuto.

    Roma.

(Da "L'Oratorio D'Amore. 1893-1903" di Diego Angeli, Alighieri, Roma-Milano 1904)



COMMENTO

Già nella sua prima raccolta poetica: "La Città di Vita" (1896), Diego Angeli (Firenze 1869 - Roma 1937) aveva mostrato quelle peculiarità che si rafforzarono in "Oratorio D'Amore" (1904), ovvero nel suo volume di versi più cospicuo e interessante. Atmosfere decadenti che soventemente si materializzano in un senso di lento disfacimento predominano nella raccolta citata, alle quali si uniscono, come si evince dalla poesia "Assonanze" (la prima delle tre che portano il medesimo titolo nel libro), evidenti tracce di crepuscolarismo: il "mare grigio", il "pallor crepuscolare", i "toni tediosi", la "triste acqua sognante", la "stanza solitaria e silente", le "cose abbandonate", la "bianca malata" e la "stanca fronte" formano una parte consistente del repertorio caro a poeti come Sergio Corazzini, Corrado Govoni ed altri crepuscolari minori. Certamente Angeli non può essere inserito nel gruppo sia per ragioni anagrafiche che per una sostanziale diversità di fondo; è indubbio però che in parte il poeta toscano abbia influenzato alcune tematiche dei crepuscolari, in particolare quelle del cenacolo romano.

sabato 15 giugno 2013

La partenza

a Italo Palermi

Andare, andare lontano lontano,
solo, per mari senza mai confine,
sotto un cielo incurvato e sempr' eguale,
in una nave tacita e bianca...
Partire solo solo nell'ora del tramonto,
in un tramonto tepido e calmo d'autunno,
mentre s'allarga la luce morente per l'azzurro diffuso del Cielo 
e si piegano come ali stanche, 
tristemente, le vele delle barche sul Mare, 
e lenta lenta mi giunge la voce 
d'una campana 
lontana 
lontana.
Partire in una nave dalle cento ampie vele distese,
dagli alberi giganti e dai camini enormi,
io così piccolo e così solo
ne l'ora d'un triste tramonto.
Io abbandono colei che finse d'amarmi
e fece di me un ridicolo trastullo;
io abbandono la mia giovinezza, nel pensiero consunta sì presto,
consunta nella tristezza e nella vergogna,
nelle battaglie e nella miseria,
consunta nelle lunghissime veglie e nel silenzio notturno delle Cose.
Io abbandono la mia casetta,
dispersa lontano, fra le altre misere casette,
che piangere m'udì tutte le notti,
quando affondavo disperatamente la faccia nel misero letto...
Addio, per sempre, o misera casetta;
addio, per sempre, solo a te dico:
io non ho nessuno all'approdo,
a cui possa dar l'ultimo addio.
Solo, andrò solo,
navigherò solo,
verso cerule lontananze,
verso un lido a me sconosciuto;
solo, nelle notti, nel silenzio di tutte le Cose,
io scruterò il nero dell'acque, che sotto mi gorgoglieranno;
solo conterò le stelle disseminate pel cielo;
solo, gravato dal pondo del silenzio notturno,
mi curverò in un cantuccio, 
mi raggomitolerò in me stesso, 
interrogherò l'anima mia, 
singhiozzerò di paura come un fanciullo.

(Da "Ali in cielo" di Francesco Biondolillo, La Vita Letteraria, Roma 1907)



COMMENTO

È un componimento in versi liberi che argomenta un desiderio del poeta: quello, appunto, di partire verso mete lontane e indefinite; già all'inizio della poesia si nota quel fare poetico tipico dei decadenti e dei crepuscolari, pieno di accenti malinconici e di atmosfere autunnali. In tutta la poesia c'è una celebrazione della solitudine e della fuga, dell'allontanamento dalle persone amate e dalla propria dimora; negli ultimi versi ritorna il famoso tema corazziniano del "povero fanciullo abbandonato". Critico letterario e professore di letteratura italiana, Francesco Biondolillo (Montemaggiore Belsito 1887 - Roma 1974) scrisse versi in gioventù che riunì nei volumi: Aneliti (1905) e Ali in cielo (1907); nelle sue liriche si trovano elementi di derivazione classicista e crepuscolare.


giovedì 13 giugno 2013

Mistero

Scendono da vasti cieli
fantasmi notturni.
La montagna di fuoco
par che s'accenda.
Intorno incombe il senso
delle cose morte.
Spento il giorno, la natura,
nella triste quiete,
cui sol dà vita
l'usignol che fra i rami si nasconde,
affida al vento le pene segrete.
La cupa notte al sole ora succede,
cade la luce nell'oscurità
e l'anima vede soltanto ombre di vanità.
E brama e vola e balza alle sovrane
regioni che celano illusioni
di gioventù.

(Clemente Scaccianoce)




Clemente Scaccianoce nacque ad Acireale in data sconosciuta. Pubblicista, poeta e critico letterario è autore di alcuni versi che furono riuniti in "Poesie" (1978), volume edito dall'Accademia di Scienze Lettere e Belle arti degli zelanti e dei dafnici di Acireale.

martedì 11 giugno 2013

Taci, anima stanca di godere

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
                   Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
                              Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
          Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
        Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

(Da: "L'opera in versi e in prosa" di Camillo Sbarbaro, Garzanti, Milano 1985)



COMMENTO

Poesia d'apertura di Pianissimo, riproduce con tono accorato la condizione di estraniamento propria della coscienza di Sbarbaro. Si osservi in primo luogo la materializzazione dell'«anima», ridotta, fin dai primi versi, all'anonimato del corpo, a sua volta ipoteticamente privo di vita («non ci stupiremmo... se il cuore si fermasse»). A questo tema di separazione della coscienza, che occupa le prime strofe, segue quello dell'estraniamento dalle cose: il mondo esterno si riduce a pura materialità, stucchevolmente presente nella sua banale evidenza oggettiva. Con tale dimensione esistenziale, il poeta non riesce ad instaurare un rapporto di vita, e l'unica possibilità rimasta si rivela la semplice registrazione del suo stato di separatezza, il suo sentirsi solo in un mondo ridotto a «deserto».

(Da: Bruno Basile - Paolo Pullega, "Letterature stile società, XX secolo", Zanichelli, Bologna 1984)

Elegia (frammento)

Tu piangi, ma non sai, piccola cara,
dove, nell'ombra, piangano le morte
cose quel tuo, dolcezza, ultimo addio,
non sai dove le tue lagrime, dove
le tue povere lagrime salate
piangere, se non anche il più diletto
amante, oggi, le beva per i lunghi
cigli e i capelli ti componga, piano
e tenero, su le arse tempie e voglia,
ad uno ad uno, dalle guance, tutte
bagnate, liberarli, indugiando
nella piccola cura in fin che un lume
dolce ti rida nei piangevoli occhi.

Lagrimi e vuoi che ti racconti alcuna
favola antica, mentre ti sarebbe
dolce un imaginare di lontani
giorni che la tristezza esiliò
con le favole, cara anima, poi
che nessuno te le racconta più,
quelle povere favole soavi
senza amarezze e pure, adesso, tanto
tristi che, quasi, piangi per averle
in cuore, tutte, come le figure
di quei piccoli santi con la palma
che tu appuntavi, con gli spilli, al muro.

Piangi pur anche la malinconia
mortale d'una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell'ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso? Ma non devi
piangere. Lascia ch'io ti asciughi, povera
anima, piano, quasi il fazzoletto,
raccogliendo le tue lagrime, possa
domani, ancora, s'io lo voglia, tutte
alla mia bocca renderle, dolcezza.
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t'è il cielo, all'improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l'ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

Verrà la pace con le mani giunte,
ma non la udrai tu, piccola, venire.
Tornerà, sai, quotidianamente
un poco, senza dirti nulla; e, vedi,
sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che in una sera,
forse più dolce e triste, all'improvviso
t'avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera. Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.

Le canteremo solo perché possano
inavvertite piangervi le nostre
anime, un poco. Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno,
ti vorrò bene, e come tu, dolcezza,
giungere mai dovessi, io ti vorrò
tanto bene. Sorridi, ora. Non piangi
quasi più. Ce ne andremo in una casa
piccola e sola. Se vorrai, nei giorni
di festa, porteremo a tutti i piccoli
infermi alcuni di quei dolci, quei
poveri dolci delle suore, quasi
bianchi, senza sapore, avvolti in carte
celesti e in fili d'oro. Se vorrai,
questo; se non vorrai, se ti sembrasse
troppo triste, andrò solo, senza piangere,
anima cara, e tornerò alla nostra
piccola casa e, come fossi anch'io
malato, sognerò le tue parole
tenere, bianche, senza senso quasi,
come quei dolci, quei piccoli dolci
delle povere suore malinconiche.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

(Da "Poesie" di Sergio Corazzini, Rizzoli, Milano)




COMMENTO

Agli endecasillabi sciolti dell'Elegia, Corazzini, pubblicandola nel 1906 in una plaquette a parte con il sottotitolo «frammento», intese dare un rilievo particolare. Essa è in fondo un colloquio del poeta con se stesso, con la propria vita. Il suo è un atteggiamento di difesa narcisistica, teso com'è a un impossibile rifugio nelle «favole soavi» dell'infanzia perduta. Ed inutile è la ricerca di un fantasma che volga in «dolcezza» le lagrime sulla morte delle cose (che è «specchio», proiezione della propria morte). Il ritorno narcisistico alla «piccola casa» e ai «poveri dolci» dell'infanzia si risolve ineluttabilmente nell'assunzione del proprio essere per la morte sotto la forma del puro desiderio di morte. Con l'Elegia, che è il suo testo più unitario e limpido, Corazzini semplificava lucidamente il grigio mondo crepuscolare, confuso e rozzo in Govoni, riducendolo all'essenziale metafora del proprio progetto poetico (o destino) di «novizio» della morte.

(Da: G. Savoca e M. Tropea, "Pascoli, Gozzano e i crepuscolari", Laterza, Bari 1988)

domenica 9 giugno 2013

Domenica d'inverno

Domenica d'inverno aspra di pioggia
su le piazze deserte e su le strade,
conosco la malinconia che invade
tutte le cose umide del suo pianto:
l'edera che intristisce su la loggia,
il fior di crisantemo e il dior d'acanto.

Spento è novembre, con l'illusione
dell'estate dei morti a San Martino;
ora trascorre il fiato decembrino
dove un sorriso tenue fiorì:
la terra è triste come una prigione
che tutte le speranze seppellì.

Domenica d'inverno, ecco il tuo pianto:
lacrime in cielo, fango su la terra;
ed uno stesso affanno vi rinserra,
anima nostra, anima delle cose!
E vi ricopre ora uno stesso manto,
anima nostra, anima delle cose!

Lasceremo passare questo giorno
fino al tramonto che non si vedrà,
com'alba non si vide, e sorgerà
un altro giorno, con la stessa pioggia
forse, e ci sembrerà quasi un ritorno
di questo che si stempra su la loggia!

Lunedì: giorno di lavoro. Noi
non guarderemo immobili con tetri
occhi l'acqua che crepita su' vetri,
e non diremo inutili parole.
Ma oggi, ch'è domenica! non vuoi,
anima, un po' d'azzurro, un po' di sole?

(Poesia di Tito Marrone tratta dalla «Rivista di Roma», del dicembre 1904)


Tito Marrone (1882-1967)




COMMENTO

Nei Poemi provinciali Marrone sosta con maggiore e forse più libera compiacenza sul lento morire di ciò che direttamente o indirettamente lo circonda nonostante la capacità vivificatrice del ricordo e del rimpianto. Ovunque egli vede dolore; sotto la pur effimera gioia, egli immediatamente individua una ragione di occultata malinconia. La domenica, che per molti è motivo di festa e di allegria, è per lui concentrazione di grigiore e di torpore, popolata da larve spettrali che lo assediano come allucinazioni.

(Da "Vent'anni o poco più" di Giuseppe Farinelli, Otto/Novecento, Milano 1998) 

giovedì 6 giugno 2013

Il tennis

L'autunno a torno i radi alberi sfronda:
ride un riso fuggente entro la vasca,
ove qualch'esil foglia umida casca,
come su l'acqua una carezza bionda.

Che è quell'accennar dietro la frasca?
Niuna voce è che al suon chiaro risponda:
un'altra foglia penzola, si affonda...
Ah! quanto tempo pria che un fior rinasca?

Il parco è giallo. Innanzi alla battuta
giocano al tennis signori e signore
in una luce come di cristallo.

Le dame bianche innanzi al parco giallo
giocan... Che è? Da qualche folle cuore
forse l'ultima foglia, ecco, è caduta.

(Da "Il convegno dei cipressi e altre poesie" di Cosimo Giorgieri-Contri, Zanichelli, Bologna 1922)





Se c'è stato un poeta italiano che più di tutti ha anticipato il crepuscolarismo è certamente Cosimo Giorgieri-Contri (1870-1943). Già col suo primo e precoce volume ("Versi tristi", 1887) dimostrò quella tendenza a creare atmosfere malinconiche e romantiche che caratterizzerà la sua intera opera poetica. Il libro che più degli altri lo contraddistingue è "Il convegno dei cipressi" (1895); uscito qualche anno dopo il "Poema paradisiaco" di D'Annunzio, al quale molto si rifà, entra di diritto tra le opere che influenzarono maggiormente i poeti detti crepuscolari. Sulla scia del "Convegno dei cipressi" si pongono anche i successivi: "Primavere del desiderio e dell'oblio" (1903), "La donna del velo" (1905) e "Mirti in ombra" (1913). Nel 1922 Giorgieri-Contri fece uscire presso l'editore Zanichelli un volume che riepilogasse la sua attività poetica e lo intitolò "Il convegno dei cipressi e altre poesie"; qui, insieme all'intiera opera del 1895, vi sono inclusi alcuni versi delle opere citate e altri più recenti.

domenica 2 giugno 2013

Orario ferroviario

Allineati dietro quel cristallo,
dicono i libri miei titoli e prezzi:
dove sei tu, mio buon libretto giallo,
unico libro ch'ora io cerchi e apprezzi?

Modesto sei come il mio canto, piccolo
come il mio cuore che non teme indagine.
Ecco, non sei più grosso d'un fascicolo
ed hai trecento, quattrocento pagine!

Tutte conosci le città de' miei
sogni e i paesi che non vedrò mai,
tutte le strade ch'io saper vorrei
come per insegnarmele tu sai.

Tutto tu sai: costumi, alberghi, date,
e tutto insegni per ogni viaggio:
tu servi chi ti dà rapide occhiate
tanto preciso sei nel tuo linguaggio!

Ben conosci le stazioni: sai fino
quali san darci il cibo o a pena il bere,
e ce lo dici con un coltellino
ed una forchettina o col bicchiere;

ben tu conosci i numeri che buoni
s'allinean nelle pagine in colonne:
quei numeri che poi non addizioni
son tutte l'ore della vita insonne.

E a me dici: «Poeta, a che t'indugi
fra le tue carte e il tuo cuor che non sa,
se nemmeno nei piccoli rifugi
s'appiatta e ride la felicità?»

(Da "Poesie 1905-1914" di Marino Moretti, Treves, Milano 1919)



COMMENTO

In Marino Moretti non c'è né il dramma un poco sofisticato (il dramma dell'intellettuale che vorrebbe rinunciare alla propria condizione senza poterlo) che fu proprio di Guido Gozzano, né quello esistenziale (della rinuncia a se stesso, della impossibilità di essere) che fu proprio di Sergio Corazzini, ma il «crepuscolarismo» allo stato puro - se è lecita una tale definizione -, cioè il crepuscolarismo come gusto delle cose mediocri, in opposizione alle sonorità e agli estetismi dannunziani. Al posto del Giorgio Aurispa, degli Stelio Effrena, degli Andrea Sperelli (cioè dei personaggi di estrazione superumana) ci sono i nomi qualsiasi dei compagni di scuola, Massari, Mauri, Mèngoli, Moretti; al posto dei libri rari l'antilibro, cioè l'orario ferroviario, di cui Moretti fu cantore; e l'uggia delle domeniche piovigginose, dei saloni da barbiere, degli albergucci di provincia, dei botteghini del lotto, dei cani randagi. In queste cose mediocri il Moretti «affoga soddisfatto, con appena una punta di malinconia blanda». È lo svuotamento della «Vita» dannunziana, con tutto l'esasperato attivismo dei suoi personaggi; la negazione del contenuto eroico per quello provinciale, cioè una poesia in tono minore, senza alcuno spicco di parole e di rime, scritta col lapis (come suona il titolo di una raccolta); da cui deriva tuttavia il senso di un cantabile in sordina, una suggestione che non sopporta d'esser paragonata a quella di alcun altro poeta.

(Da "I problemi", antologia a cura di Mario Balestrieri, Angelo Gianni e Angelo Pasquali, D'Anna, Messina-Firenze)

L'assiuolo

Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più?...);
e c'era quel pianto di morte...
chiù...

(Da "Myricae" di Giovanni Pascoli, Rizzoli, Milano)



COMMENTO

L'assiuolo è un uccello rapace notturno simile al gufo con due ciuffi di penne sul capo, detto anche popolarmente in Toscana chiù per il verso che emette. È uccello spesso presente nelle poesie di Pascoli come simbolo di morte, di tristezza, di alienazione.

(Da: G. Savoca M. Tropea, "Pascoli, Gozzano e i crepuscolari", Laterza, Bari 1988)

Dialogo di marionette

— Perché, mia piccola regina,
mi fate morire di freddo?
Il re dorme, potrei, quasi,
cantarvi una canzone,
ché non udrebbe! Oh, fatemi
salire sul balcone!
— Mio grazioso amico,
il balcone è di cartapesta,
non ci sopporterebbe!
Volete farmi morire
senza testa?
— Oh, piccola regina, sciogliete
i lunghi capelli d’oro!
— Poeta! non vedete
che i miei capelli sono
di stoppa?
— Oh, perdonate!
— Perdono.
— Così?
— Così...?
— Non mi dite una parola,
io morirò...
— Come? per questa sola
ragione?
— Siete ironica... addio!
— Vi sembra?
— Oh, non avete rimpianti
per l’ultimo nostro convegno
nella foresta di cartone?
— Io non ricordo, mio
dolce amore... Ve ne andate...
Per sempre? Oh, come
vorrei piangere! Ma che posso farci
se il mio piccolo cuore
è di legno?

(Da "Poesie" di Sergio Corazzini, Rizzoli, Milano)



COMMENTO

La scelta dell'ambiente è indicativa e subito determina il tono della poesia, sin dal titolo. Qui il dialogo si svolge tra il poeta ed una marionetta, la regina, e i due personaggi proprio per la loro natura ci introducono in un clima sentimentalmente melanconico, reso appena frizzante da un velo d'ironia. Che non è l'ironia complessa, scaltrita e intellettualistica, di Gozzano, ma è più vicina, forse, a certo doloroso divertimento di Palazzeschi: ironia in cui è illusa una dolorosa realtà umana. Le marionette, come l'organo di Barberia e le monachelle, sono tra gli oggetti caratteristici introdotti nella poesia dalla mitografia crepuscolare: questi oggetti di un mondo ormai estraneo e lontano, ridotto in soffitta, sono i simboli del crepuscolo di un mondo interiore del poeta.

(In "Dal Carducci ai contemporanei", a cura di G. Getto e F. Portinari, Zanichelli, Bologna 1966)

Nel mese di giugno

Nel mese di giugno
la città quando sospesa
e alta sopra il nostro sperdimento
si desta alla frecciata delle luci

all'ora incerta tra vigilia e sonno
che il corpo inciampa nel suo peso
ma si rialza sulla sua fatica

nella pausa del tempo tra la rondine e l'assiolo
tra la vita e la sua sopravvivenza,

Tu che spezzi la servitù e l'orgoglio
- dicono - della sofferenza, vieni
se già non sei dovunque
in veste di randagio,

d'infermo, di bambino tribolato.
Segui il timido, accosta il solitario,
ripeti: la virtù quando non giunge
fino all'amore è cosa vana.

È quell'ora della metà dell'anno
che il senza tetto strascica i suoi cenci
sull'erba pesticciata, cerca asilo,
la lucciola lampeggia, il cane abbaia.

(Da "Onore del vero" di Mario Luzi, Neri Pozza, Venezia 1957)



COMMENTO

Tra i poeti italiani, Mario Luzi è uno di quelli di più aperta e dichiarata ispirazione - e professione - religiosa. In tal senso questa poesia ci pare una delle sue migliori, limpida, senza l'ausilio di linguistici raggiri, diritta verso la soluzione.

(Da "Dal Carducci ai contemporanei", antologia a cura di G. Getto e F. Portinari, Zanichelli, Bologna 1966)