domenica 16 novembre 2014

Da "Controcorrente" di Joris-Karl Huysmans

Colto da un indefinibile malessere davanti a quei disegni come al cospetto di certi «Proverbi» di Goya, ch'essi richiamavano; colto dallo stesso malessere che gli dava la lettura di Poe - del quale Odilon Redon pareva aver trasferito in una altr'arte i miraggi allucinatori e le terrificanti suggestioni - egli si stropicciava gli occhi e rifugiava lo sguardo su una raggiante immagine, che schiudeva quasi una oasi di pace e di serenità fra tutte quelle tavole ossesse; una immagine della Malinconia, assisa di contro il sole, su rocce in atteggiamento triste ed abbattuto.
Per incanto, le tenebre si dissipavano; una seducente tristezza, una desolazione che non pungeva, non doleva più, scendeva nei suoi pensieri; meditabondo, s'indugiava a contemplare quell'opera che coi suoi punteggi a guazzo seminati nella matita grassa, metteva un chiarore di verde acqua e d'oro pallido nell'ostinato nero di tutti quei carboncini e di quelle incisioni.

(Da "Controcorrente" di Joris-Karl Huysmans, Mondadori, Milano 2013, p. 63)


Odilon Redon, "Melancholy"

domenica 2 novembre 2014

Canzonetta d'una sera di novembre

Gli orti son tutti pieni
di crisantemi bianchi
e di foglie cadute:
pe' silenzi sereni
vanno i ricordi stanchi
delle cose perdute.

Ancor l'ultimo sole
incendia una vetrata
laggiù: suonano l'Ave.
In un ciel di viole
la luna s'è levata
di dietro a Monte Cave.

Novembre. Ah, che veleno
in queste sere smorte,
quando nel cheto lume
pe' piani umidi il fieno
e l'erbe odoran forte
fra le nebbie del fiume!

Quando l'autunno infiora
come uno stanco aprile
l'asil romito ov'io,
solo, m'indugio ancora,
che veleno sottile
di ricordi e d'oblio!

Non tornerà l'assente
che nei vesperi molli
qui mi sedea vicino
(moria sì dolcemente
sovra i lontani colli
il giorno novembrino);

non tornerà più mai
in una sera stanca
giungendo di lontano
l'amica che obliai,
la buona anima bianca,
a porgermi la mano?

Troppe volte io l'attesi,
con la fronte che ardeva,
dietro al vecchio cancello,
e l'anima protesi
se la ghiaia strideva
sotto al piedino snello!

Troppe volte la sera
ho udito una romanza
passata ormai di moda
diffondersi leggera
per la tepida stanza
dal piano a mezza coda!

E troppe volte infine
io le vidi cadere
nell'ebbrezza profonda
rovescia su le trine
bianche dell'origliere
la bella testa bionda!

E quest'amore è morto.
Ove sarà l'altera
che tenne in signoria
i giaggioli dell'orto?
Non tornerà, una sera?
Non tornerai, Maria?


Commiato

I morti: ieri i Santi.
O mio cuore, è la sorte:
quel che fu santo ieri
oggi nei camposanti
custodisce la morte
fra le ghirlande e i ceri.



NOTA
Canzonetta d'una sera di novembre è la dodicesima ed ultima poesia della sezione Rime delle liete e delle tristi stagioni compresa nel libro di Guelfo Civinini (1873-1954): L'urna, Alighieri, Roma 1900. L'autore, noto non solo come poeta, la ripresentò anche nel suo successivo volume poetico uscito più di dieci anni dopo: I sentieri e le nuvole, Treves, Milano 1911. Qui si notano il cambiamento del titolo (Canzonetta novembrina) e alcune modifiche del testo. La stessa poesia, nella prima versione, fu inserita anche nell'antologia curata da Glauco Viazzi: Dal simbolismo al déco, Einaudi, Torino 1981.




sabato 1 novembre 2014

I santi di ghiaccio

Tre santi, tre signori
di ghiaccio, tre pallori,
dormon, gli occhi socchiusi, dentro grotte
lontane, e solo a notte
sporgono fuori i volti.
Stanno d'attorno accolti
accidiosi e torpono i paesaggi.

Attendono quei saggi
l'inverno per lasciare la dimora.
Poi vanno ove scolora
la neve in bianco i campi ed i paesi,
a chiedere cortesi
un rifugio alle genti.
Ma dovunque si volgan quegli accenti,
ghiaccian uomini e cose.

Cercano popolose
contrade, e per le ville
lasciano a mille a mille
le vittime. Colpite
di gelo, irrigidite
formano lunghe file sul cammino.
Volgon le piante in pietre: e l'occhio sino
all'estremo confine
scorge solo rovine
di cose già vissute ed ora morte.
Ma quando le sue porte
apre nel cielo primavera, scioglie
il sole dalle spoglie
rigide quei ghiacciati.

Tornano allora i tre agli abbandonati
luoghi e alle grotte,
donde soltanto a notte
sporgono i visi bianchi.
Quivi riposan quei tre corpi stanchi,
sin che li chiami un novo
inverno fuori del lontano covo.

(Pier Angelo Baratono)




NOTA

I santi di ghiaccio è la poesia II della sezione Fiabe di Novalba che Pier Angelo Baratono firma in Sparvieri, di Ad. e P. A. Baratono, con acquaforte di E. De Albertis, edito dagli autori, Genova 1900, pp. 46-47.
PIER ANGELO BARATONO (Roma 1880 - Trento 1927). Appena ventenne pubblicò insieme al fratello Adelchi, il suo unico volume di versi: Sparvieri (1900); si dedicò poi alla critica letteraria e alla scrittura di romanzi e novelle di argomento comico. Le sue poesie anticipano in parte i temi delle sue prose caratterizzate dalla descrizione di personaggi singolari e misteriosi.

(dall'antologia: "Dal simbolismo al déco", Einaudi 1981 e dal blog "cose e ombre")

domenica 21 settembre 2014

Non t'illudere

Non t'illudere, fratello,
se il cielo è tutto di rosa
e l'anima riposa
sotto il suo triste fardello:
sappilo, non ti rimane
che un pezzo di pane.

Non t'illudere per via
se in ora crepuscolare
tutto qui sembra affrettare
l'ansia dell'avemaria:
sappilo, non ti rimane
che un suon di campane.

Non t'illudere: hai finito
di pretendere qualcosa:
colta hai l'ultima tua rosa,
l'hai sciupata in un convito:
è molto se ti rimane
fedele il tuo cane.



COMMENTO
"Non t'illudere" è il titolo di una poesia di Marino Moretti (Cesenatico 1885 - ivi 1979) che fu pubblicata per la prima volta nella raccolta "Poesie scritte col lapis", Ricciardi, Napoli 1910. Esclusa nel 1919 da "Poesie (1905-1915)", ricomparve nel 1949 in una raccolta antologica di Moretti che portava il medesimo titolo di quella in cui apparve inizialmente. Presente è anche in "Tutte le poesie" (Mondadori, Milano 1966) con alcune varianti. In simil forma fu ripresentata in una nuova antologia avente ancora una volta il titolo: "Poesie scritte col lapis", uscita nel 1970 presso la Mondadori. Il tema è quello delle illusioni: il poeta esorta fraternamente il lettore ad abbandonare ogni illusione ed a prendere atto della realtà delle cose, pur se questa si presenti in modo crudo e doloroso. Da ricordare che anche Sergio Corazzini, qualche anno prima, aveva dedicato una composizione in versi allo stesso argomento (la poesia s'intitola: "Le illusioni" e si trova nella raccolta "Libro per la sera della domenica").

giovedì 14 agosto 2014

Il manichino

In uno studio di via Margutta,
rifugio estremo
degli orpelli
naufragati nelle vendite;
fra un Pulcinella scemo
senza capelli,
con mezza faccia,
confinato in un angolo 
e una Bautta 
rimasta senza 
piedi né braccia,
vidi vostra Eminenza.

Indossava la porpora
come ne' giorni di solennità,
volgendomi le spalle:
un po' curva, seduta su la sedia
di damasco a righe gialle,
con rassegnata aria di povertà.
Il cielo nuvoloso lesinava la sua luce
dall'altissima finestra a inferriata,
come dentro un pozzo.
E c'era tanfo di muffa e d'umido,
Eminenza, in quel vostro abito rosso. 

Ma come da palazzo Vaticano
v'eravate ridotta
a vivacchiare invalida laggiù?
Qual caso strano
vi aveva poi condotta
quell'altra miseranda compagnia?
E dalla prigionia
chi v'avrebbe ora liberata più?
Quando m'avvicinai
per leggervi sul viso la risposta
fiammeggiante di sdegno,
m'accorsi che la vostra
fronte e il naso e la bocca 
eran di legno;
vidi - ma senza
maraviglia, Eminenza -
che il vostro capo grigio era di stoppa. 

(Da "Antologia poetica" di Tito Marrone)




COMMENTO

Nei versi di Il manichino, di Tito Marrone, si notano molte somiglianze con Dialogo di marionette, famosa poesia di Sergio Corazzini. Visto che quest'ultima uscì nel 1906 (nella raccolta Piccolo libro inutile), e quella del Marrone fu pubblicata da una rivista nel 1907, fu il poeta siciliano a seguire i passi di Corazzini. Non mancano però altri casi in cui Marrone, coi suoi versi ispirò alcune tra le migliori poesie di Corazzini e di altri poeti crepuscolari. Se si rileggono i primi volumetti che Marrone pubblicò: Cesellature (1899), Le gemme e gli spettri (1901), Le rime del commiato (1901), Liriche (1904) e molte altre poesie che lo scrittore trapanese pubblicò in varie riviste nei primissimi anni del XX secolo, si troveranno parecchi elementi in comune coi cosiddetti poeti crepuscolari. Per tal motivo Tito Marrone, così come Arturo Graf, Cosimo Giorgieri Contri, Guelfo Civinini e altri, va considerato come un precursore del crepuscolarismo che, a sua volta, negli anni della maturità, fu influenzato e condizionato da quella stessa scuola poetica alla cui nascita egli stesso aveva dato un contributo non indifferente.

domenica 10 agosto 2014

Sogno

Una casetta bianca in riva al mare,
e gli attrezzi per fare il pescatore,
tornar la sera stanco a desinare
e alzarsi ogni mattina al primo albore.

Vivere lieto, di luce, d'amore,
di giovinezza ognor sul limitare,
la donna mia con me senza timore
aver liberamente... e farmi amare:

orizzonti guardar giornate intere,
volte stellate contemplar la sera...
passeggiar con l'amata a primavera,

non mancar mai di sol né di piacere.
Ecco il mio sogno ch'è da pazzo, è vero,
ma che non vuol morir nel mio pensiero.

(Dalla rivista «La Farfalla Milanese», marzo 1905)



COMMENTO

L'autore della poesia sopra riportata è Archimede Longo. Di lui si sa poco o nulla, a parte che i suoi scritti (soprattutto prose) apparvero sulla rivista La Farfalla Milanese. Le poche poesie rintracciabili mostrano un'anima romantica che sogna, immagina e agogna vite impossibili, luoghi incantevoli e amori eterni. Qualche suo verso è possibile leggerlo nel volume: Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento, a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999.

domenica 3 agosto 2014

Botteghino del lotto

Musa, poi ch'oggi io già stanco t'appaio
di seguire il bel sogno che fu nostro,
lasciami fra il sentore dell'inchiostro
che imputridisce in qualche calamaio,

fra quest'aria che sa di maleficio
e di miseria credula che pensa,
lasciami nella triste sonnolenza
di questo luogo ch'è bottega e ufficio!

Lascia ch'io guardi il volto paonazzo
dell'impiegato della scrivania
(certo ei s'intende di calligrafia
e la sua firma è tutta uno svolazzo),

lascia ch'io guardi numeri e registri
e il ritratto del re che ci governa
e ci promette un terno e una quaterna
con l'approvazione dei ministri!

Io guardo in giro. Ecco, s'adunan qua
tacitamente in fin di settimana
le suore grige dell'attesa vana:
Pigrizia, Economia, Credulità....

Io guardo in giro. E l'uomo stende il rosso
polverino su l'ultima bolletta,
ed alza gli occhi sul mio volto e aspetta
ch'io mi pronunzi: ma non so, non posso.

Che faccio io qui? Debbo giocare al lotto
anch'io? Cercar dei numeri ne' miei
sogni d'artista? Ecco: 46
5, 90, 30, 58....





COMMENTO
Il botteghino del lotto è una poesia di Marino Moretti. La versione qui presente fa parte del volume riassuntivo Poesie 1905-1914, pubblicato da Treves in Milano nel 1919. In precedenza, la poesia fu inclusa in Poesie di tutti i giorni, Ricciardi, Napoli 1911; la stesura originale presenta alcune varianti rispetto a quella sopra riportata. In seguito, Moretti la pubblicò anche in Tutte le poeise, Mondadori Milano 1966. Infine, nella nuova versione del 1966, la medesima poesia fu inserita nella raccolta antologica Gozzano e i crepuscolari (Garzanti, milano 1983).
Il tema è quello ricorrente dei luoghi che, almeno un secolo or sono, erano piuttosto frequentati dalla popolazione delle città di provincia. In questo caso, il poeta si reca nel botteghino del lotto per giocare dei numeri; in quest'azione, però, non c'è nulla di entusiasmante: l'uomo sembra che vada lì tanto per fare qualcosa e non per convinzione; tant'è che, una volta all'interno del locale, guardando l'impiegato che attende le sue parole, egli si chiede il motivo per cui si trovi in quel momento proprio lì, e non ne vede alcuno; così, senza troppo pensarci, dice cinque numeri a caso e se ne va. Ritorna quindi, in questa poesia, la sensazione di noia e d'inutilità che contraddistingue la migliore poesia di Moretti, e che è anche uno degli elementi identificativi della poesia crepuscolare.



lunedì 21 luglio 2014

Il cancello

L’oscuro viale dai mille cipressi
che porta al cancello del grande piazzale
è aperto a la gente.
Soltanto il cancello non s’apre.
Va e viene la gente pel lungo viale
che il sole soltanto non lascia passare,
si sosta al cancello che à cento colonne di ferro
la gente a guardare.
In una carretta ch’è piccolo letto
due monache nere conducono attorno
pel grande piazzale, il Signore,
padrone del grande castello.
Cent’anni à il Signore
padrone del grande castello!
Lo portano attorno due monache nere,
attorno al castello ch’è in mezzo al piazzale.
Non ode non vede la gente
che al vano dei ferri del grande cancello
sta ferma a guardare.
Va e viene la gente pel lungo viale
che il sole soltanto non lascia passare,
si sosta al cancello che à cento colonne di ferro
la gente a guardare.
Ogn’anno a quel grande cancello
s’aggiunge una nuova colonna di ferro:
il posto d’un altro a guardare.


NOTA
La poesia Il cancello è di Aldo Palazzeschi; fa parte della raccolta I cavalli bianchi, pubblicata a spese del poeta, in Firenze nel 1905. Ora la si trova alla pagina 8 del volume Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2002, che raccoglie l'intera opera in versi di Palazzeschi.


Rompicoglioni

Rompicoglioni al mare e in montagna,
rompicoglioni dalla Francia e dalla Spagna.

Rompicoglioni in aereo e in treno,
rompicoglioni ad Ascoli Piceno.

Rompicoglioni al bar e al ristorante,
rompicoglioni da vicino e da distante.

Rompicoglioni a casa e in chiesa,
rompicoglioni a Torino e a Stresa.

Rompicoglioni al lavoro e al riposo,
rompicoglioni  a Ruino e a Belgioioso.

Rompicoglioni al mercato e in latteria,
rompicoglioni dovunque tu sia.

Rompicoglioni alla radio e in tivvù:
di rompicoglioni non ne posso più!

sabato 15 marzo 2014

Le cose che fanno la primavera

L'acqua rimbalzante dei passeri sui tetti.
La ghirlanda umida di viole che le rondini
sospendono intorno al cornicione della casa,
all'alba.
L'ombrello verde del mendicante di campagna
che va in elemosina sotto la pioggia.
L'organo di Barberia che suona nel sobborgo
il valzer triste della Vedova Allegra.
Le bianche nuvole di polvere
che corron dietro agli automobili.
Le lucciole nel camposanto.
Il giardiniere che vernicia i sedili di legno del viale.
L'innaffiatoio rosso abbandonato nel cortile.
Il ciuffo d'erba fresca nella gronda.
E la fontana che fa la piscia
dentro il suo cerchio,
mentre passan le guardie, col bastone
sotto il braccio, senza far contravvenzione.
L'asino del frate cercatore
che s'impuntiglia in mezzo alla strada
a non voler andar più avanti
malgrado le legnate del padrone,
perché è passata l'asina dell'ortolano.
Una rosa finta nel cappello
d'una signora divorabile.
E quella nuvola fanciulla
che si dondola laggiù
voluttuosamente
rinfrescando tutto il cielo
del roseo delle sue gambe ignude,
sull'altalena della doppia voce
del cuculo.


NOTA
Questa poesia è di Corrado Govoni e fa parte della raccolta L'inaugurazione della primavera, Taddei, Ferrara 1915; nella seconda edizione, uscita presso lo stesso editore nel 1920, la si trova alle pagine 161 e 162.








mercoledì 12 febbraio 2014

A Cesena

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia delle case senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che si ostina
a dirmi bella la tua vita: bella,

bella! Oh bambina, sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento
a chi dici ora mamma, a una signora;

So che quell'uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po' di bene....

«Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch'io sia gentile, vuoi ch'io le sorrida,
ch'io le parli de' miei viaggi; e poi,

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici, rauca, di non so che sfìda
corsa ieri tra voi; e dici dove,

quando, come, perchè; ripeti ancora
quando, come, perchè; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d'una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch' è quasi al tramonto,
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
«Vedrai, vedrai se lo terrò da conto!»;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d'amor proprio, d'amore....

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d'un uomo ch'io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me così parla, così
parla, senza dolcezza, mentre piove:

«La mamma nostra t'avrà detto che....
E poi si vede, ora si vede e come!...
Sì, sono incinta.... Troppo presto, ahimè!...

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d'allattarlo da me?... Cerchiamo un nome....
Ho fortuna: è una buona gravidanza....»

Ancora parli, ancora parli; e guardi
le cose intorno. Piove. S'avvicina
l'ombra grigiastra. Suona l'ora. È tardi.

E l'anno scorso eri così bambina!




NOTA
A Cesena è la poesia più famosa e più antologizzata di Marino Moretti; comparve per la prima volta nel volume Il giardino dei frutti, Ricciardi, Napoli 1915 e fu poi compresa in tutte le raccolte riassuntive del poeta romagnolo.




domenica 26 gennaio 2014

I giocatori

Giù nella grotta dei martiri
ch'era taverna
di militari
i crocifissi brillano su pozze
di sangue; e lì presso
i veterani
giuocano ancora
a carte stregate.

Su una carta piange Maria
il Figlio straziato,
su un'altra gli occhi
volge languida e si pettina
gli aurati capelli sul mare
che muta colore.
Moventi figure, numeri
di pianeti gittano
sul tavoliere
ad alte grida blasfeme;
poi mischiano i grandi
tarocchi e si fissano
nel giuoco difficile e scuro.

Da mila anni son lì che giuocano
senza cibo né sonno:
la città sopra loro
s'è fatta moderna e rintrona,
in quel fondo, di tràini
che fanno tremare l'incanto.
Se uscissero adesso
dall'usciòlo nel chiasso
dei traffici e delle luci forti,
cadrebbero in cenere e nulla
come tratti da un sarcofago.


NOTA
I giocatori è una poesia di Giorgio Vigolo. Si può leggere all'interno del volume La luce ricorda, Mondadori, Milano 1967, insieme alla gran parte dei versi pubblicati fino ad allora dal poeta romano. Si trova anche nel primo volume dell'antologia Poesia italiana. Il Novecento, Garzanti, Milano 1980.




Genti pie che pregate...

Genti pie che pregate prima di porvi a letto, 
non pregate pei morti che stan nel cataletto 
non pregate per gli ospiti del tenebrore eterno, 
che dal mondo partendo sono usciti d'inferno. 
Stesi placidamente e colle braccia in croce, 
della sacra Natura ascoltano la voce: 
senton la vita immensa che si prepara al sole, 
han nei capegli l'umide radici delle viole, 
han nei pugni gli steli che diverranno abeti;
i morti nella terra son tranquilli e lieti.
Genti pie che pregate quando la notte cade,
non pregate pei morti che bevon le rugiade,
che si mutano in foglie, che si mutano in fiori;
non pregate pei giunti, pregate pei viatori,
per i vivi pregate quando cade la notte.
E allor che i Mali intorno scaraventansi a frotte,
e par che Iddio dimentichi le misere creature,
come s'Ei pur dormisse nelle sue regge oscure.
Pregate per le madri che aspettano; pregate
per le livide teste nel gioco ottenebrate;
per la donna che stende le braccia all'uomo ignoto,
pel povero poeta, altro prigion del loto,
che assalta il ciel coll'anima che lagrima e fa sangue;
pregate per la turba negli ospitali esangue,
sovra cui, col crepuscolo, peggior dell'agonia,
la memoria s'abbatte e la malinconia;
per gli amanti pregate, scongiurate il Signore,
che creò la Sventura quando creò l'Amore!


NOTE
Questa poesia è di Emilio Praga e si trova nel volume riassuntivo Opere, Rossi F., Napoli 1969. Più precisamente, è il 17° capitolo del poema I tre amanti di Bella e faceva parte di un'altra raccolta intitolata Fiabe e leggende, che uscì presso Milano, alla Casa Editrice degli Autori-Editori nel 1867 e che fu più volte ristampata.




venerdì 10 gennaio 2014

La trombettina

Ecco che cosa resta 
di tutta la magia della fiera: 
quella trombettina, 
di latta azzurra e verde, 
che suona una bambina 
camminando, scalza, per i campi. 
Ma, in quella nota sforzata, 
ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi; 
c’è la banda d’oro rumoroso, 
la giostra coi cavalli, l’organo, i lumini. 
Come, nel sgocciolare della gronda, 
c’è tutto lo spavento della bufera, 
la bellezza dei lampi e dell’arcobaleno; 
nell’umido cerino d’una lucciola 
che si sfa su una foglia di brughiera, 
tutta la meraviglia della primavera. 



NOTA
La trombettina è una delle poesie più note del poeta italiano Corrado Govoni; comparve per la prima volta a pagina 361 del volume Poesie scelte, che Govoni pubblicò presso l'editore Taddei in Ferrara nel 1920. Quindi, fu inclusa nel Quaderno dei sogni e delle stelle, Mondadori, Milano 1924 (pp. 72-73).






venerdì 3 gennaio 2014

Il vaso

Voglia da noi allontanare Iddio
il vaso che imprigiona la speranza.
Qui nella chiusa stanza
resta quel vaso che non è più mio.

Dal fondo d'esso sale una fragranza
che anticipa l'inganno e il malefizio.

Esci, sbatti la porta e scarta il vizio 
della speranza.


NOTA
Questa poesia è di Marino Moretti ed è inclusa nel libro In verso e in prosa, Mondadori, Milano 1979, che raccoglie alcune tra le più importanti poesie dello scrittore romagnolo





giovedì 2 gennaio 2014

Pellegrinaggio invernale

L'altro giorno - non so da qual coraggio
l'anima a un tratto mi sentissi invasa -
son tornato a la tua piccola casa
coi miei ricordi, in pio pellegrinaggio.

Sono tornato quasi in sogno: attratto
da quel senso che si compiace e appaga
come di un gioco, di inasprir la piaga,
di ravvivarla, in fondo al cuor disfatto.

Varcato il fiume, presi, lento, lento,
a salir per la via de la collina:
splendeva il sole e tanta era la brina
che ogni ramo parea quasi d'argento.

Ho rivista la panca, tutta verde
di musco; il ponticello; la fontana
ghiacciata: più non canta in voce umana
e solo a goccie giù l'acqua disperde.

Giunsi e varcai la soglia: che deserto,
il giardino! che schianto! le tue rose,
morte! e i gerani! quante morte cose!
Una donna è venuta, che mi ha aperto.

Son salito a la tua camera: nuda
come un sepolcro, tutto chiuso, oscuro!
proprio di fronte al letto, contro al muro
sai che ho trovato? una donnetta nuda!

Quella ch'io t'ho mandato, e su cui c'è
scritto... ma tu lo sai cosa c'è scritto!
io me la son ripresa, zitto, zitto,
se non ti spiace, la terrò con me.

Son ridisceso, errando pel giardino
vivo sol di memorie, quasi un'ora.
La vecchietta mi ha chiesto - E la Signora? -
Non risposi: rimasi a capo chino.

Pure comprese: tentennò la testa,
poi disse piano, ma in tono profondo:
- Come l'estate passa presto al mondo!
Solo l'inverno e la miseria restano! -

Che tristezza, che angoscia, nel ritorno!
Guardava io pei giardini ampi e deserti,
e tutti i luoghi mi pareano esperti
di tradimento e di pietà, quel giorno!

Cadea la sera. In basso, fra le brume,
per le tremule fiamme dei fanali,
si costellava la città di opali.
Qualche bagliore si frangea, nel fiume.

Pur, mentr'io mi sentiva il cor più stretto
da le angoscie de la malinconia,
vidi due amanti, a basso de la via,
salirne verso me, lenti, a bracetto.

Pensai - Forse ridesto da l'eterno
rimpianto, il sogno di qui mi fa ritorno? -
Ma lei diceva - Già declina il giorno:
che peccato che duri ancor l'inverno!

- Ascolta, amico, ascolta! - Ebben, che vuoi? -
- Quanta serenità! che bella sera!
ritorneremo questa Primavera?
- Cara! - ei ripose - E prima, certo! - e poi!

(Carlo Chiaves)





Il discorso del Chiaves è quello tipico del borghese del suo tempo, scontento (di sé e del suo tempo): dice non solo della difficoltà dei rapporti interpersonali, ma anche del disaccordo che viene risolto sacrificando il reale, nonché una reale comprensione delle ragioni del reale, in favore del mentale e dello psichico, estremo rifugio dell'Io. Donde il tentativo di trarre in salvo alcunché, scrivendone come sostituzione svalutante/rivalutante (l'estrema serietà, se non drammaticità, dell'ironia). Gli oggetti verranno allora registrati per la loro valenza simbolica, La vecchia porta per lo stato di separatezza ed esclusione, La pietra corrosa per la trasformazione di perdita; fino a renderli i feticci di una fattualità irrecuperabile (la tua scarpa rossa, / uno spillone, un solo guanto, un velo in Pellegrinaggio invernale), gli emblemi della frustrazione (la villa chiusa come impenetrabilità e impossibilità di possesso).

(Glauco Viazzi in "Dal simbolismo al déco")