giovedì 29 novembre 2018

Nox


Nox è il titolo di una lirica del poeta italiano Vincenzo Riccardi di Lantosca (Rio de Janeiro 1929 - Ravenna 1887). Comparve per la prima volta in volume nella raccolta Le isole deserte. Memorie (Loescher, Torino 1877); quindi confluì nel volume postumo Poesie scelte (Barbèra, Firenze 1900). Ora la si può leggere in diverse antologie, tra le quali Poesia italiana dell'Ottocento, a cura di Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano 1978, da cui l'ho trascritta. La lirica porta la data del 1860, e possiede elementi che rientrano in pieno nelle tematiche del tardo romanticismo e della scapigliatura. Si parla di una giovane donna morta suicida, per cui il poeta prova un senso di grande pietà e di comprensione. Dai primi versi si evince che Riccardi si trovava nella stanza della suicida quando il medico ne attestò la morte. La donna ha deciso di morire in completa solitudine, senza far sapere nulla. Il poeta si rivolge alla morta come se l'anima di lei, liberatasi dal corpo,  possa in qualche modo leggere i suoi versi, e, mostrando un alto senso di simpatia e di comprensione umana nei confronti della povera e infelice giovane, che soltanto dandosi  la morte è riuscita a trovare la sua pace interiore, cerca di consolarla. I due versi finali (di nulla ti rimembra / o il tuo presto partir tardi ti sembra) vanno interpretati in questo modo: «Tu non ricordi più nulla della tua esistenza,  ma se dovessi ancora ricordare qualcosa, certo avrai l'impressione di essere morta troppo tardi, anche se eri ancora giovane».


NOX

Come i panni del tuo letto eri bianca,
       quando affermò il dottore
       ch'eri morta, e il pretore
che t'eri uccisa. A niun dicesti «addio»,
e niun «addio» ti disse. Anima stanca,
riposa. Non temer; tutto è compiuto.
       Ché se in fiero desio
vagheggiasti la Notte, or che hai potuto
abbracciarla, di nulla ti rimembra,
o il tuo presto partir tardi ti sembra.


venerdì 9 novembre 2018

Er testamento d'un Arbero


Pur non essendo io un appassionato di poesia dialettale, ho voluto riportare una bella lirica di Trilussa (Roma 1871 - ivi 1950), poeta romano che usava questo pseudonimo anziché il suo vero nome: Carlo Alberto Salustri, e che scriveva i suoi versi in dialetto romanesco. Le sue migliori caratteristiche erano l'ironia che, spesso e volentieri sapeva trasformarsi in comicità pura; una malinconia  che sempre o quasi scaturisce dalla massima finale dei suoi componimenti poetici, e infine una fantasia senza confini, grazie alla quale riusciva a far parlare animali e piante, perfino oggetti, senza che il lettore rimanesse per questo sbalordito. In fondo, molte sue poesie non sono altro che brevi favole, il cui finale è però, ben più amaro di quelle reali. In questi versi si parla di un albero che, sentendo prossima la sua fine, chiama a gran voce gli uccelli circostanti, e ad essi detta il suo testamento: Lascia tutti i suoi fiori al mare, tutte le sue foglie al vento, tutti i suoi frutti al sole e tutti i suoi semi agli uccelli stessi, che fanno da testimoni alle sue ultime volontà e che hanno il merito di aver rallegrato l'arbusto coi loro canti nei giorni della primavera. I rami secchi invece, serviranno per fare un bel fuoco in inverno, quando i poveri non hanno di che scaldarsi; soltanto un ramo, però, dovrà essere risparmiato dalle fiamme: un ramo che sarà consacrato e custodito in nome di Dio e della bontà degli uomini. Questo ramo, semplice e modesto, ha un merito che nessuno conosce, se non l'albero: si è dimostrato forte e robusto abbastanza per sostenere un uomo onesto che vi si è impiccato. Ecco, infine, l'amarezza citata in precedenza, che si ha leggendo questi ultimi versi: un uomo onesto, ha deciso di togliersi la vita, e nel mondo, nella società dove viveva, l'unica entità che non lo ha tradito è stata quel ramo, che generosamente lo ha sorretto nel momento in cui se ne andava per sempre.


ER TESTAMENTO D'UN ARBERO

Un Arbero d'un bosco
chiamò l'ucelli e fece testamento:
- Lascio li fiori ar mare,
lascio le foje ar vento,
li frutti ar sole e poi
tutti li semi a voi.
A voi, poveri ucelli,
perché me cantavate le canzone
ne la bella staggione.
E vojo che li stecchi,
quanno saranno secchi,
fàccino er foco pe' li poverelli.
Però v'avviso che sur tronco mio
c'è un ramo che dev'esse ricordato
a la bontà dell'ommini e de Dio.
Perché quer ramo, semprice e modesto,
fu forte e generoso: e lo provò
er giorno che sostenne un omo onesto
quanno ce s'impiccò.

(da "Poesie scelte", Mondadori, Milano 1993, volume primo, p. 211)




sabato 8 settembre 2018

Canzonetta del desiderio onesto


L'unico desiderio
ch'or mi sorride è questo:
un desiderio onesto
degno d'un uomo serio.

Ora che innanzi viene
coi suoi vesperi rossi
il settembre, e dai fossi
nelle notti serene

è dolce l'ascoltare
il canto delle rane,
o l'uggiolar d'un cane
da un lontano casolare,

o il lamento del chiù
da qualche vecchia torre,
o il rivo che discorre
coi frassini laggiù,

in queste calme sere
che nell'anno passato
abbiamo avvelenato
di sì sciocche chimere,

or ch'è dal cuor distratta
ogni memoria rea,
mi sorride l'idea
d'andar lungo la fratta

di vitalbe e di bossi
che circonda la villa,
con l'anima tranquilla
a caccia ai pettirossi.

Vi giuro, è proprio questo
l'unico desiderio.
Perché non vi par serio?
È un desiderio onesto.



COMMENTO
Questa poesia di Guelfo Civinini (Livorno 1873 - Roma 1954), si trova alla pagina 107 del volume I sentieri e le nuvole (Treves, Milano 1911). Rappresenta, insieme ad altre, presenti nel medesimo volume, la condivisione da parte del poeta toscano, delle classiche tematiche care ai crepuscolari. Le otto quartine di Canzonetta del desiderio onesto, mostrano, fin dall'inizio, una dichiarata riduzione delle ambizioni personali, che ormai si limitano a semplici e quasi insignificanti azioni da eseguire nei primi giorni di settembre, quando il clima è ancora gradevole e le ultime giornate estive offrono spettacoli incomparabili. Abbandonate le sciocche chimere sognate e ricercate negli anni passati, ora il poeta desidera soltanto andare a caccia di pettirossi. Sinceramente, non mi sembra una buona idea, quella di uccidere per gioco degli uccellini innocui, ma, a parte ciò, quel che conta in questi versi è mettere in risalto delle iniziative poco importanti, che vogliono significare un'elevata diminuzione delle ambizioni; per il poeta, oramai, non esistono più ideali né sogni di alcun genere, esiste soltanto la voglia di godersi delle piacevoli giornate di fine stagione, magari dedicandosi ad un hobby appassionante; tutto il resto non conta più nulla, e perciò, a questo punto la vita si limita a dei gesti, dei comportamenti e delle abitudini senza alcuna rilevanza.

venerdì 3 agosto 2018

Il gatto


Questo io sogno avere in casa mia:
una donna con un cervello,
un gatto che mi scivoli tra i libri,
amici sempre, in tutte le stagioni,
ché senza amici io non posso vivere.



COMMENTO 
Breve e semplice poesia di Guillaume Apollinaire (1880-1918) che in pochi versi esprime i suoi desideri più profondi. Il poeta francese parla degli esseri viventi (persone e animali) con cui vorrebbe trascorrere la sua vita. Al primo posto ci mette una donna col cervello, tenendo con questa definizione a precisare che, per lui, una compagna non deve essere necessariamente molto bella, né eccessivamente simpatica e forse neanche buona: l'importante per Apollinaire è che la sua metà abbia una mente particolarmente sviluppata, per condividere con lei i più diversi piaceri intellettuali. Al secondo posto pone un gatto che gli scivoli tra i libri, sorta di animaletto soffice e amichevole, il quale ha l'onore di potersi aggirare tra gli oggetti più cari allo scrittore: i suoi volumi. La terza ed ultima presenza necessaria alla vita del poeta è quella degli amici: elemento imprescindibile, che non può mancare in tutti i dì dell'anno, perché vivere senza amici anche un solo giorno equivarrebbe a morire. Questi versi li ho trascritti dalla pagina 391 dell'antologia Poeti del Novecento italiani e stranieri, a cura di Elena Croce, Einaudi, Torino 1960.

mercoledì 4 luglio 2018

Sepolto nel silenzio


Sepolto nel silenzio
che domina le notti
- ed è il buio una bara -
quali suoni tu ascolti,
quali musiche odi?

Vengono di là, dal mondo
sempre più caldo e verde,
dove stanno i destini
vivi, umani, le sorti.

Vengon di là, da un colle
dove nasce - e si sbianca -

la voce dei tuoi morti.



NOTA
Questo frammento poetico è di Antonio Rinaldi (Potenza 1914 - Firenze 1982), e fa parte del volume di versi e prose intitolato L'età della poesia; fu pubblicato da Vallecchi Editore a Firenze nel 1969. La poesia che ho riportato è la 5° della sezione Fogli di diario; tra i pochi versi che si trovano in questo libro, tale sezione risulta sicuramente la più drammatica. Il poeta è stato recentemente colpito da un grave lutto: la morte della sua compagna di sempre; in questa e in altre poesie emerge in modo netto la totale disperazione dell'uomo solo, che cerca appigli, giustificazioni, consolazioni e ragioni per proseguire la propria vita malgrado l'assenza della donna amata. I versi qui presenti testimoniano il travaglio dell'uomo durante le notti insonni, quando silenzio e buio dominano la scena e chi ne è vittima, ha l'impressione di essere già morto, chiuso all'interno di una bara. In questi momenti il poeta ha l'impressione di ascoltare dei suoni, ma inizialmente non riesce a capire da dove vengano; poi, comprende che la provenienza di tali suoni appartiene ad un altro mondo, un mondo dal quale si sente attratto, perché quei suoni non sono altro che le voci dei suoi cari morti, che lo chiamano affinché torni insieme a loro, dopo la morte.

venerdì 8 dicembre 2017

Paturnie

Fa festa dar fuoco
a un tronco di quercia
- brucia fino a domani.
Ricchi e poveri scaricano
le paturnie e insieme
si scaldano le mani.



COMMENTO

Questa breve poesia fa parte dell'ultima raccolta poetica di Leonardo Sinisgalli: Dimenticatoio; pubblicata dalla Mondadori a Milano nel 1978, conferma e completa il carattere prettamente epigrammatico dell'ultima fase poetica di Sinisgalli. Questi versi si trovano alla pagina 71; nella sezione VI, intitolata Nodi scorsoi. Le paturnie, ovvero i malumori, vengono qui gettati nel fuoco fatto scaturire dalla combustione di un tronco di quercia. Non si capisce bene dove avvenga questa riunione o "festa", come recita il primo verso; fatto sta che, probabilmente davanti ad un focolare, si è riunita un'umanità variegata e accomunata dal fatto di avere accumulato delle "paturnie". Per capire meglio questa poesia, cito un breve tratto della prosa L'immobilità dello scriba, pubblicata da Sinisgalli nella raccolta L'età della luna (Mondadori, 1960):

[...] I popoli meridionali sono stati schiacciati dalla paturnia dei padri, dalla infallibilità dei nonni, despoti intorno al fuoco o intorno al desco. Nel Sud è mancato l’amore, il filo di speranza, la scappatoia ai guai di famiglia. [...]


Come si può leggere, il vocabolo ha qui un significato decisamente negativo, capace com'è di schiacciare un intero popolo, contribuendo a far sì che quest'ultimo si ritrovi in una sorta di cul-de-sac e sia quindi destinato alla sconfitta, all'immobilità. Sempre nel frammento in prosa, è anche da notare l'allusione al "fuoco", ovvero al focolare intorno a cui si riunivano un tempo le famiglie.

sabato 10 settembre 2016

Finestrella

O nera finestrella di gerani
e di rossi garofani fiorita,
che a la fanciulla povera e polita
ridono mentre l'ago ha tra le mani,

vedi? la luna pende sul cortile,
sfavilla il cielo e palpita ogni stella,
stende l'ombra in piazzetta il campanile;

odi? la gaia gioventù stornella
per la villa splendente, e tu, gentile

e pudica, stai chiusa, o finestrella.



COMMENTO
Emilio Girardini (1858-1946) è uno di quei poeti che, pur essendo dotati di un talento non indifferente, sono stati quasi totalmente ignorati dalla critica letteraria, per motivi che riguardano la sua estraneità alle mode dei tempi, ovvero per il fatto che Girardini, così come altri suoi contemporanei, non seguì quelle correnti tanto in voga all'inizio del Novecento, quando, anche lui, cominciò a pubblicare i suoi versi. Finestrella è una breve poesia che fa parte della raccolta Ruri (1903), la prima del poeta friulano che in seguito fece uscire Liriche varie (1908) e Chordae cordis (1920), mentre, postumo fu pubblicato il ricapitolativo Poesie (1952). Tornando alla poesia qui sopra riportata, si tratta di un madrigale che mostra alcune peculiarità appartenenti alla poesia di Giacomo Leopardi e, in parte, a quella di Giovanni Pascoli. Il Leopardi è presente per la riottosità e la malinconia trasmessa dall'immagine di una piccola finestra chiusa, anche quando tutt'intorno si vive in un'atmosfera gaia e spensierata; il Pascoli per l'ambientazione che assomiglia a quella di molte poesie appartenenti alla raccolta Myricae, con piccoli paesi quasi incantati e personaggi (simili alla fanciulla povera) umili, magari intenti nei loro minuziosi eppur semplici lavori.



Telemaco Signorini, "Una mattina di settembre a Settignano"
(da https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18804505)