martedì 11 giugno 2013

Taci, anima stanca di godere

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
                   Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
                              Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
          Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
        Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

(Da: "L'opera in versi e in prosa" di Camillo Sbarbaro, Garzanti, Milano 1985)



COMMENTO

Poesia d'apertura di Pianissimo, riproduce con tono accorato la condizione di estraniamento propria della coscienza di Sbarbaro. Si osservi in primo luogo la materializzazione dell'«anima», ridotta, fin dai primi versi, all'anonimato del corpo, a sua volta ipoteticamente privo di vita («non ci stupiremmo... se il cuore si fermasse»). A questo tema di separazione della coscienza, che occupa le prime strofe, segue quello dell'estraniamento dalle cose: il mondo esterno si riduce a pura materialità, stucchevolmente presente nella sua banale evidenza oggettiva. Con tale dimensione esistenziale, il poeta non riesce ad instaurare un rapporto di vita, e l'unica possibilità rimasta si rivela la semplice registrazione del suo stato di separatezza, il suo sentirsi solo in un mondo ridotto a «deserto».

(Da: Bruno Basile - Paolo Pullega, "Letterature stile società, XX secolo", Zanichelli, Bologna 1984)

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