martedì 11 giugno 2013

Elegia (frammento)

Tu piangi, ma non sai, piccola cara,
dove, nell'ombra, piangano le morte
cose quel tuo, dolcezza, ultimo addio,
non sai dove le tue lagrime, dove
le tue povere lagrime salate
piangere, se non anche il più diletto
amante, oggi, le beva per i lunghi
cigli e i capelli ti componga, piano
e tenero, su le arse tempie e voglia,
ad uno ad uno, dalle guance, tutte
bagnate, liberarli, indugiando
nella piccola cura in fin che un lume
dolce ti rida nei piangevoli occhi.

Lagrimi e vuoi che ti racconti alcuna
favola antica, mentre ti sarebbe
dolce un imaginare di lontani
giorni che la tristezza esiliò
con le favole, cara anima, poi
che nessuno te le racconta più,
quelle povere favole soavi
senza amarezze e pure, adesso, tanto
tristi che, quasi, piangi per averle
in cuore, tutte, come le figure
di quei piccoli santi con la palma
che tu appuntavi, con gli spilli, al muro.

Piangi pur anche la malinconia
mortale d'una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell'ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso? Ma non devi
piangere. Lascia ch'io ti asciughi, povera
anima, piano, quasi il fazzoletto,
raccogliendo le tue lagrime, possa
domani, ancora, s'io lo voglia, tutte
alla mia bocca renderle, dolcezza.
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t'è il cielo, all'improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l'ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

Verrà la pace con le mani giunte,
ma non la udrai tu, piccola, venire.
Tornerà, sai, quotidianamente
un poco, senza dirti nulla; e, vedi,
sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che in una sera,
forse più dolce e triste, all'improvviso
t'avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera. Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.

Le canteremo solo perché possano
inavvertite piangervi le nostre
anime, un poco. Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno,
ti vorrò bene, e come tu, dolcezza,
giungere mai dovessi, io ti vorrò
tanto bene. Sorridi, ora. Non piangi
quasi più. Ce ne andremo in una casa
piccola e sola. Se vorrai, nei giorni
di festa, porteremo a tutti i piccoli
infermi alcuni di quei dolci, quei
poveri dolci delle suore, quasi
bianchi, senza sapore, avvolti in carte
celesti e in fili d'oro. Se vorrai,
questo; se non vorrai, se ti sembrasse
troppo triste, andrò solo, senza piangere,
anima cara, e tornerò alla nostra
piccola casa e, come fossi anch'io
malato, sognerò le tue parole
tenere, bianche, senza senso quasi,
come quei dolci, quei piccoli dolci
delle povere suore malinconiche.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

(Da "Poesie" di Sergio Corazzini, Rizzoli, Milano)




COMMENTO

Agli endecasillabi sciolti dell'Elegia, Corazzini, pubblicandola nel 1906 in una plaquette a parte con il sottotitolo «frammento», intese dare un rilievo particolare. Essa è in fondo un colloquio del poeta con se stesso, con la propria vita. Il suo è un atteggiamento di difesa narcisistica, teso com'è a un impossibile rifugio nelle «favole soavi» dell'infanzia perduta. Ed inutile è la ricerca di un fantasma che volga in «dolcezza» le lagrime sulla morte delle cose (che è «specchio», proiezione della propria morte). Il ritorno narcisistico alla «piccola casa» e ai «poveri dolci» dell'infanzia si risolve ineluttabilmente nell'assunzione del proprio essere per la morte sotto la forma del puro desiderio di morte. Con l'Elegia, che è il suo testo più unitario e limpido, Corazzini semplificava lucidamente il grigio mondo crepuscolare, confuso e rozzo in Govoni, riducendolo all'essenziale metafora del proprio progetto poetico (o destino) di «novizio» della morte.

(Da: G. Savoca e M. Tropea, "Pascoli, Gozzano e i crepuscolari", Laterza, Bari 1988)

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