giovedì 14 agosto 2014

Il manichino

In uno studio di via Margutta,
rifugio estremo
degli orpelli
naufragati nelle vendite;
fra un Pulcinella scemo
senza capelli,
con mezza faccia,
confinato in un angolo 
e una Bautta 
rimasta senza 
piedi né braccia,
vidi vostra Eminenza.

Indossava la porpora
come ne' giorni di solennità,
volgendomi le spalle:
un po' curva, seduta su la sedia
di damasco a righe gialle,
con rassegnata aria di povertà.
Il cielo nuvoloso lesinava la sua luce
dall'altissima finestra a inferriata,
come dentro un pozzo.
E c'era tanfo di muffa e d'umido,
Eminenza, in quel vostro abito rosso. 

Ma come da palazzo Vaticano
v'eravate ridotta
a vivacchiare invalida laggiù?
Qual caso strano
vi aveva poi condotta
quell'altra miseranda compagnia?
E dalla prigionia
chi v'avrebbe ora liberata più?
Quando m'avvicinai
per leggervi sul viso la risposta
fiammeggiante di sdegno,
m'accorsi che la vostra
fronte e il naso e la bocca 
eran di legno;
vidi - ma senza
maraviglia, Eminenza -
che il vostro capo grigio era di stoppa. 

(Da "Antologia poetica" di Tito Marrone)




COMMENTO

Nei versi di Il manichino, di Tito Marrone, si notano molte somiglianze con Dialogo di marionette, famosa poesia di Sergio Corazzini. Visto che quest'ultima uscì nel 1906 (nella raccolta Piccolo libro inutile), e quella del Marrone fu pubblicata da una rivista nel 1907, fu il poeta siciliano a seguire i passi di Corazzini. Non mancano però altri casi in cui Marrone, coi suoi versi ispirò alcune tra le migliori poesie di Corazzini e di altri poeti crepuscolari. Se si rileggono i primi volumetti che Marrone pubblicò: Cesellature (1899), Le gemme e gli spettri (1901), Le rime del commiato (1901), Liriche (1904) e molte altre poesie che lo scrittore trapanese pubblicò in varie riviste nei primissimi anni del XX secolo, si troveranno parecchi elementi in comune coi cosiddetti poeti crepuscolari. Per tal motivo Tito Marrone, così come Arturo Graf, Cosimo Giorgieri Contri, Guelfo Civinini e altri, va considerato come un precursore del crepuscolarismo che, a sua volta, negli anni della maturità, fu influenzato e condizionato da quella stessa scuola poetica alla cui nascita egli stesso aveva dato un contributo non indifferente.

domenica 10 agosto 2014

Sogno

Una casetta bianca in riva al mare,
e gli attrezzi per fare il pescatore,
tornar la sera stanco a desinare
e alzarsi ogni mattina al primo albore.

Vivere lieto, di luce, d'amore,
di giovinezza ognor sul limitare,
la donna mia con me senza timore
aver liberamente... e farmi amare:

orizzonti guardar giornate intere,
volte stellate contemplar la sera...
passeggiar con l'amata a primavera,

non mancar mai di sol né di piacere.
Ecco il mio sogno ch'è da pazzo, è vero,
ma che non vuol morir nel mio pensiero.

(Dalla rivista «La Farfalla Milanese», marzo 1905)



COMMENTO

L'autore della poesia sopra riportata è Archimede Longo. Di lui si sa poco o nulla, a parte che i suoi scritti (soprattutto prose) apparvero sulla rivista La Farfalla Milanese. Le poche poesie rintracciabili mostrano un'anima romantica che sogna, immagina e agogna vite impossibili, luoghi incantevoli e amori eterni. Qualche suo verso è possibile leggerlo nel volume: Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento, a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999.

domenica 3 agosto 2014

Botteghino del lotto

Musa, poi ch'oggi io già stanco t'appaio
di seguire il bel sogno che fu nostro,
lasciami fra il sentore dell'inchiostro
che imputridisce in qualche calamaio,

fra quest'aria che sa di maleficio
e di miseria credula che pensa,
lasciami nella triste sonnolenza
di questo luogo ch'è bottega e ufficio!

Lascia ch'io guardi il volto paonazzo
dell'impiegato della scrivania
(certo ei s'intende di calligrafia
e la sua firma è tutta uno svolazzo),

lascia ch'io guardi numeri e registri
e il ritratto del re che ci governa
e ci promette un terno e una quaterna
con l'approvazione dei ministri!

Io guardo in giro. Ecco, s'adunan qua
tacitamente in fin di settimana
le suore grige dell'attesa vana:
Pigrizia, Economia, Credulità....

Io guardo in giro. E l'uomo stende il rosso
polverino su l'ultima bolletta,
ed alza gli occhi sul mio volto e aspetta
ch'io mi pronunzi: ma non so, non posso.

Che faccio io qui? Debbo giocare al lotto
anch'io? Cercar dei numeri ne' miei
sogni d'artista? Ecco: 46
5, 90, 30, 58....





COMMENTO
Il botteghino del lotto è una poesia di Marino Moretti. La versione qui presente fa parte del volume riassuntivo Poesie 1905-1914, pubblicato da Treves in Milano nel 1919. In precedenza, la poesia fu inclusa in Poesie di tutti i giorni, Ricciardi, Napoli 1911; la stesura originale presenta alcune varianti rispetto a quella sopra riportata. In seguito, Moretti la pubblicò anche in Tutte le poeise, Mondadori Milano 1966. Infine, nella nuova versione del 1966, la medesima poesia fu inserita nella raccolta antologica Gozzano e i crepuscolari (Garzanti, milano 1983).
Il tema è quello ricorrente dei luoghi che, almeno un secolo or sono, erano piuttosto frequentati dalla popolazione delle città di provincia. In questo caso, il poeta si reca nel botteghino del lotto per giocare dei numeri; in quest'azione, però, non c'è nulla di entusiasmante: l'uomo sembra che vada lì tanto per fare qualcosa e non per convinzione; tant'è che, una volta all'interno del locale, guardando l'impiegato che attende le sue parole, egli si chiede il motivo per cui si trovi in quel momento proprio lì, e non ne vede alcuno; così, senza troppo pensarci, dice cinque numeri a caso e se ne va. Ritorna quindi, in questa poesia, la sensazione di noia e d'inutilità che contraddistingue la migliore poesia di Moretti, e che è anche uno degli elementi identificativi della poesia crepuscolare.