domenica 26 gennaio 2014

I giocatori

Giù nella grotta dei martiri
ch'era taverna
di militari
i crocifissi brillano su pozze
di sangue; e lì presso
i veterani
giuocano ancora
a carte stregate.

Su una carta piange Maria
il Figlio straziato,
su un'altra gli occhi
volge languida e si pettina
gli aurati capelli sul mare
che muta colore.
Moventi figure, numeri
di pianeti gittano
sul tavoliere
ad alte grida blasfeme;
poi mischiano i grandi
tarocchi e si fissano
nel giuoco difficile e scuro.

Da mila anni son lì che giuocano
senza cibo né sonno:
la città sopra loro
s'è fatta moderna e rintrona,
in quel fondo, di tràini
che fanno tremare l'incanto.
Se uscissero adesso
dall'usciòlo nel chiasso
dei traffici e delle luci forti,
cadrebbero in cenere e nulla
come tratti da un sarcofago.


NOTA
I giocatori è una poesia di Giorgio Vigolo. Si può leggere all'interno del volume La luce ricorda, Mondadori, Milano 1967, insieme alla gran parte dei versi pubblicati fino ad allora dal poeta romano. Si trova anche nel primo volume dell'antologia Poesia italiana. Il Novecento, Garzanti, Milano 1980.




Genti pie che pregate...

Genti pie che pregate prima di porvi a letto, 
non pregate pei morti che stan nel cataletto 
non pregate per gli ospiti del tenebrore eterno, 
che dal mondo partendo sono usciti d'inferno. 
Stesi placidamente e colle braccia in croce, 
della sacra Natura ascoltano la voce: 
senton la vita immensa che si prepara al sole, 
han nei capegli l'umide radici delle viole, 
han nei pugni gli steli che diverranno abeti;
i morti nella terra son tranquilli e lieti.
Genti pie che pregate quando la notte cade,
non pregate pei morti che bevon le rugiade,
che si mutano in foglie, che si mutano in fiori;
non pregate pei giunti, pregate pei viatori,
per i vivi pregate quando cade la notte.
E allor che i Mali intorno scaraventansi a frotte,
e par che Iddio dimentichi le misere creature,
come s'Ei pur dormisse nelle sue regge oscure.
Pregate per le madri che aspettano; pregate
per le livide teste nel gioco ottenebrate;
per la donna che stende le braccia all'uomo ignoto,
pel povero poeta, altro prigion del loto,
che assalta il ciel coll'anima che lagrima e fa sangue;
pregate per la turba negli ospitali esangue,
sovra cui, col crepuscolo, peggior dell'agonia,
la memoria s'abbatte e la malinconia;
per gli amanti pregate, scongiurate il Signore,
che creò la Sventura quando creò l'Amore!


NOTE
Questa poesia è di Emilio Praga e si trova nel volume riassuntivo Opere, Rossi F., Napoli 1969. Più precisamente, è il 17° capitolo del poema I tre amanti di Bella e faceva parte di un'altra raccolta intitolata Fiabe e leggende, che uscì presso Milano, alla Casa Editrice degli Autori-Editori nel 1867 e che fu più volte ristampata.




venerdì 10 gennaio 2014

La trombettina

Ecco che cosa resta 
di tutta la magia della fiera: 
quella trombettina, 
di latta azzurra e verde, 
che suona una bambina 
camminando, scalza, per i campi. 
Ma, in quella nota sforzata, 
ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi; 
c’è la banda d’oro rumoroso, 
la giostra coi cavalli, l’organo, i lumini. 
Come, nel sgocciolare della gronda, 
c’è tutto lo spavento della bufera, 
la bellezza dei lampi e dell’arcobaleno; 
nell’umido cerino d’una lucciola 
che si sfa su una foglia di brughiera, 
tutta la meraviglia della primavera. 



NOTA
La trombettina è una delle poesie più note del poeta italiano Corrado Govoni; comparve per la prima volta a pagina 361 del volume Poesie scelte, che Govoni pubblicò presso l'editore Taddei in Ferrara nel 1920. Quindi, fu inclusa nel Quaderno dei sogni e delle stelle, Mondadori, Milano 1924 (pp. 72-73).






venerdì 3 gennaio 2014

Il vaso

Voglia da noi allontanare Iddio
il vaso che imprigiona la speranza.
Qui nella chiusa stanza
resta quel vaso che non è più mio.

Dal fondo d'esso sale una fragranza
che anticipa l'inganno e il malefizio.

Esci, sbatti la porta e scarta il vizio 
della speranza.


NOTA
Questa poesia è di Marino Moretti ed è inclusa nel libro In verso e in prosa, Mondadori, Milano 1979, che raccoglie alcune tra le più importanti poesie dello scrittore romagnolo





giovedì 2 gennaio 2014

Pellegrinaggio invernale

L'altro giorno - non so da qual coraggio
l'anima a un tratto mi sentissi invasa -
son tornato a la tua piccola casa
coi miei ricordi, in pio pellegrinaggio.

Sono tornato quasi in sogno: attratto
da quel senso che si compiace e appaga
come di un gioco, di inasprir la piaga,
di ravvivarla, in fondo al cuor disfatto.

Varcato il fiume, presi, lento, lento,
a salir per la via de la collina:
splendeva il sole e tanta era la brina
che ogni ramo parea quasi d'argento.

Ho rivista la panca, tutta verde
di musco; il ponticello; la fontana
ghiacciata: più non canta in voce umana
e solo a goccie giù l'acqua disperde.

Giunsi e varcai la soglia: che deserto,
il giardino! che schianto! le tue rose,
morte! e i gerani! quante morte cose!
Una donna è venuta, che mi ha aperto.

Son salito a la tua camera: nuda
come un sepolcro, tutto chiuso, oscuro!
proprio di fronte al letto, contro al muro
sai che ho trovato? una donnetta nuda!

Quella ch'io t'ho mandato, e su cui c'è
scritto... ma tu lo sai cosa c'è scritto!
io me la son ripresa, zitto, zitto,
se non ti spiace, la terrò con me.

Son ridisceso, errando pel giardino
vivo sol di memorie, quasi un'ora.
La vecchietta mi ha chiesto - E la Signora? -
Non risposi: rimasi a capo chino.

Pure comprese: tentennò la testa,
poi disse piano, ma in tono profondo:
- Come l'estate passa presto al mondo!
Solo l'inverno e la miseria restano! -

Che tristezza, che angoscia, nel ritorno!
Guardava io pei giardini ampi e deserti,
e tutti i luoghi mi pareano esperti
di tradimento e di pietà, quel giorno!

Cadea la sera. In basso, fra le brume,
per le tremule fiamme dei fanali,
si costellava la città di opali.
Qualche bagliore si frangea, nel fiume.

Pur, mentr'io mi sentiva il cor più stretto
da le angoscie de la malinconia,
vidi due amanti, a basso de la via,
salirne verso me, lenti, a bracetto.

Pensai - Forse ridesto da l'eterno
rimpianto, il sogno di qui mi fa ritorno? -
Ma lei diceva - Già declina il giorno:
che peccato che duri ancor l'inverno!

- Ascolta, amico, ascolta! - Ebben, che vuoi? -
- Quanta serenità! che bella sera!
ritorneremo questa Primavera?
- Cara! - ei ripose - E prima, certo! - e poi!

(Carlo Chiaves)





Il discorso del Chiaves è quello tipico del borghese del suo tempo, scontento (di sé e del suo tempo): dice non solo della difficoltà dei rapporti interpersonali, ma anche del disaccordo che viene risolto sacrificando il reale, nonché una reale comprensione delle ragioni del reale, in favore del mentale e dello psichico, estremo rifugio dell'Io. Donde il tentativo di trarre in salvo alcunché, scrivendone come sostituzione svalutante/rivalutante (l'estrema serietà, se non drammaticità, dell'ironia). Gli oggetti verranno allora registrati per la loro valenza simbolica, La vecchia porta per lo stato di separatezza ed esclusione, La pietra corrosa per la trasformazione di perdita; fino a renderli i feticci di una fattualità irrecuperabile (la tua scarpa rossa, / uno spillone, un solo guanto, un velo in Pellegrinaggio invernale), gli emblemi della frustrazione (la villa chiusa come impenetrabilità e impossibilità di possesso).

(Glauco Viazzi in "Dal simbolismo al déco")